Il giovane intellettuale e filosofo Francois–Xavier Bellamy ha pubblicato un interessante intervento sul quotidiano “Avvenire”, domenica 15 marzo, sul rapporto tra politica e filosofia.
Una bella riflessione, interessante a tratti affascinante.
Ha iniziato raccontando dapprima la sua esperienza di insegnante in periferia e ho ripensato immediatamente all’esempio di don Lorenzo Milani, che si è fatto ultimo - anche lui – tra gli ultimi di quella sperduta frazione nella periferia esistenziale di Barbiana.
Da lì, da quell’esilio non certo dorato, ha costruito una nuova umanità, una cultura insieme a coloro che erano gli scartati, gli ultimi, quelli che non avevano diritto ad avere una scuola ma, a malapena, un priore, che era stato spostato, allontanato perché voleva costruire qualcosa di nuovo, ma era “scomodo” ed è stato inviato nella periferia della periferia. Eppure… anche lì, anche da loro ha saputo costruire qualcosa di buono: li ha istruiti perché non fossero ultimi della società.
Barbiana: una frazione talmente insignificante che non aveva nemmeno la dignità di avere una sua scuola dell’obbligo. Era nel paese vicino più grande, ma in inverno, con la neve, davvero non raggiungibile. Questi bambini e ragazzi erano condannati all’ignoranza.
Il nuovo Priore di Barbiana, appena arrivato si interrogò subito su cosa potesse significare cambiare la loro vita e il loro destino: infatti, insegnò loro non solo a scrivere e a far di conto, ma a conoscere la società, impararono con don Milani a leggere il giornale, e a comprendere le notizie e i fatti che si narravano. Nacque, così la “scuola popolare”, con tanti ragazzi anche di diverse età, dove si invitavano anche persone “importanti” per fare conferenze, ma spesso divenivano colloqui con interrogatori veri e propri da parte dei ragazzi che erano sempre più incuriositi ed affamati di imparare i meccanismi della vita reale.
Oggi, questa “trasmissione della conoscenza” per usare l’espressione del filosofo Francois-Xavier Bellamy, è attuata in diverse situazioni e in diversi interventi verso gli “analfabeti di oggi”, cioè coloro che arrivano in Italia e non parlano la nostra lingua, e subiscono spesso un grave scotto per l’integrazione. E penso, solo per fare un esempio, al lungimirante impegno di Eraldo Affinati, che da diversi anni insegna la cultura e la lingua italiana gratuitamente agli stranieri, fornendo loro uno strumento valido per riscattare la loro vita in Italia: trovare un lavoro, mettersi in regola, chiedere i documenti, ottenere l’assistenza sanitaria, pagare le tasse, con tutto ciò che ne consegue.
Affinati investe sulle loro vite, condivide il suo patrimonio di cultura con chi ha fame e necessità di integrarsi, fornendo loro il primo strumento: la lingua e la cultura. Inoltre, il suo impegno porta frutti “in questo genio della trasmissione dell’identità europea è l’accoglienza di ciascuno, qualunque sia la sua storia. La nostra identità non è un’occasione per escludere, ma per costruire il legame che ci unisce”, ed è esattamente il risultato che il maestro fondatore della Penny Wirton School cerca di raggiungere. La sua scuola è chiaramente una risposta ad una delle periferie esistenziali di cui spesso parla Papa Francesco.
L’articolo del filosofo porta anche ad altre suggestioni: ad esempio, in merito all'identità e alla costruzione europea, una forte spinta con un indirizzo preciso è venuta da San Giovanni Paolo II. Lui teorizzò, predicò, incontrò capi di stato e lottò per arrivare alla costruzione di una Europa unita dall"'Atlantico agli Urali", cristiana e pacifica. Infatti, il continente europeo ha vissuto un lungo periodo di pace dopo il Secondo conflitto mondiale: pur se divisa in due blocchi, non scivolò nell’abisso di una nuova guerra, fino alla tragedia della divisione della Jugoslavia, allora con una guerra difficile e sanguinosa, iniziata nel giugno del 1991 e terminata con la stipula di due accordi, alla fine del 1995.
Il suo sogno, Giovanni Paolo II lo manifestò ai partecipanti nel corso del V Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), nel 1982.
Questa è una storia che bisogna ricordare: perché chi non ha memoria delle proprie origini, perde anche il senso di dove andare e di cosa essere. Purtroppo, invece, in parte s’è perso il senso di civiltà europea perché in pochi conoscono la storia, i dolori di una guerra fratricida. E i testimoni della Seconda Guerra Mondiale stanno scomparendo e, con essi, la memoria viva, la testimonianza diretta. Così, sarà più facile smarrirsi e rinchiudersi nel pertugio del proprio stato, piccolo o grande che sia, ma senza quel respiro universale che hanno trasmesso i padri fondatori dell’Europa che, dopo la distruzione della guerra, hanno prima contribuito alla ricostruzione del proprio Stato e poi all’edificazione dell’Europa pacifica e pacificata.
Il rischio di oggi è perdere questo “respiro universale”, che invece deve tendere, portare ad una unità fattuale, non solo economica, monetaria.
A mio modesto e personale modo di vedere, i cattolici devono essere i portatori di questa memoria storica dei padri fondatori dell’Europa, oltre che dell’Italia ricostruita, naturalmente. I cattolici hanno dato molto in impegno, idee, politica, proposte e prospettive per il futuro.
Oggi la marginalità dei cattolici, una timidità non è più consentita: ci viene in aiuto anche Papa Francesco che chiede di farsi prossimi ai periferici: dalla periferia possono venire nuove energie di bene, propulsive per la costruzione di una nuova politica vicina alla gente, che divenga protagonista. Per riuscire, io credo, bisogna tornare sulle strade, nei quartieri, riaprire quelle sedi di partito che una volta erano un po’ l’anima, il riferimento del quartiere ed ora non esistono più, o se ci sono, sono ben nascoste!
Bisogna tornare a parlare con la gente, perché ci sono tanti arrabbiati perché nessuno ascolta i loro problemi (e ce ne sono tanti da affrontare), ma già l’ascolto è un modo per prendersi carico e iniziare a costruire una nuova casa, un nuovo impegno. Il primo passo è l’incontro e l’ascolto, poi verrà l’impegno dopo aver ragionato, essersi confrontati e capito dove servirà l’intervento. Probabilmente all’inizio si sbaglierà o saremo contestati, ma è in conto: qualcuno dovrà accendere la prima scintilla per una nuova iniziativa, che parta dal basso, perché senza radici non reggerà.
Molto altro si potrebbe scrivere, con tante suggestioni proposte dall'intellettuale francese, ma l’importante è fissare i concetti e scendere in strada ad incontrare ed ascoltare. Poi si capirà qualcosa in più e si potrà agire per il meglio
Buon lavoro!
Una bella riflessione, interessante a tratti affascinante.
Ha iniziato raccontando dapprima la sua esperienza di insegnante in periferia e ho ripensato immediatamente all’esempio di don Lorenzo Milani, che si è fatto ultimo - anche lui – tra gli ultimi di quella sperduta frazione nella periferia esistenziale di Barbiana.
Da lì, da quell’esilio non certo dorato, ha costruito una nuova umanità, una cultura insieme a coloro che erano gli scartati, gli ultimi, quelli che non avevano diritto ad avere una scuola ma, a malapena, un priore, che era stato spostato, allontanato perché voleva costruire qualcosa di nuovo, ma era “scomodo” ed è stato inviato nella periferia della periferia. Eppure… anche lì, anche da loro ha saputo costruire qualcosa di buono: li ha istruiti perché non fossero ultimi della società.
Barbiana: una frazione talmente insignificante che non aveva nemmeno la dignità di avere una sua scuola dell’obbligo. Era nel paese vicino più grande, ma in inverno, con la neve, davvero non raggiungibile. Questi bambini e ragazzi erano condannati all’ignoranza.
Il nuovo Priore di Barbiana, appena arrivato si interrogò subito su cosa potesse significare cambiare la loro vita e il loro destino: infatti, insegnò loro non solo a scrivere e a far di conto, ma a conoscere la società, impararono con don Milani a leggere il giornale, e a comprendere le notizie e i fatti che si narravano. Nacque, così la “scuola popolare”, con tanti ragazzi anche di diverse età, dove si invitavano anche persone “importanti” per fare conferenze, ma spesso divenivano colloqui con interrogatori veri e propri da parte dei ragazzi che erano sempre più incuriositi ed affamati di imparare i meccanismi della vita reale.
Oggi, questa “trasmissione della conoscenza” per usare l’espressione del filosofo Francois-Xavier Bellamy, è attuata in diverse situazioni e in diversi interventi verso gli “analfabeti di oggi”, cioè coloro che arrivano in Italia e non parlano la nostra lingua, e subiscono spesso un grave scotto per l’integrazione. E penso, solo per fare un esempio, al lungimirante impegno di Eraldo Affinati, che da diversi anni insegna la cultura e la lingua italiana gratuitamente agli stranieri, fornendo loro uno strumento valido per riscattare la loro vita in Italia: trovare un lavoro, mettersi in regola, chiedere i documenti, ottenere l’assistenza sanitaria, pagare le tasse, con tutto ciò che ne consegue.
Affinati investe sulle loro vite, condivide il suo patrimonio di cultura con chi ha fame e necessità di integrarsi, fornendo loro il primo strumento: la lingua e la cultura. Inoltre, il suo impegno porta frutti “in questo genio della trasmissione dell’identità europea è l’accoglienza di ciascuno, qualunque sia la sua storia. La nostra identità non è un’occasione per escludere, ma per costruire il legame che ci unisce”, ed è esattamente il risultato che il maestro fondatore della Penny Wirton School cerca di raggiungere. La sua scuola è chiaramente una risposta ad una delle periferie esistenziali di cui spesso parla Papa Francesco.
L’articolo del filosofo porta anche ad altre suggestioni: ad esempio, in merito all'identità e alla costruzione europea, una forte spinta con un indirizzo preciso è venuta da San Giovanni Paolo II. Lui teorizzò, predicò, incontrò capi di stato e lottò per arrivare alla costruzione di una Europa unita dall"'Atlantico agli Urali", cristiana e pacifica. Infatti, il continente europeo ha vissuto un lungo periodo di pace dopo il Secondo conflitto mondiale: pur se divisa in due blocchi, non scivolò nell’abisso di una nuova guerra, fino alla tragedia della divisione della Jugoslavia, allora con una guerra difficile e sanguinosa, iniziata nel giugno del 1991 e terminata con la stipula di due accordi, alla fine del 1995.
Il suo sogno, Giovanni Paolo II lo manifestò ai partecipanti nel corso del V Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), nel 1982.
Questa è una storia che bisogna ricordare: perché chi non ha memoria delle proprie origini, perde anche il senso di dove andare e di cosa essere. Purtroppo, invece, in parte s’è perso il senso di civiltà europea perché in pochi conoscono la storia, i dolori di una guerra fratricida. E i testimoni della Seconda Guerra Mondiale stanno scomparendo e, con essi, la memoria viva, la testimonianza diretta. Così, sarà più facile smarrirsi e rinchiudersi nel pertugio del proprio stato, piccolo o grande che sia, ma senza quel respiro universale che hanno trasmesso i padri fondatori dell’Europa che, dopo la distruzione della guerra, hanno prima contribuito alla ricostruzione del proprio Stato e poi all’edificazione dell’Europa pacifica e pacificata.
Il rischio di oggi è perdere questo “respiro universale”, che invece deve tendere, portare ad una unità fattuale, non solo economica, monetaria.
A mio modesto e personale modo di vedere, i cattolici devono essere i portatori di questa memoria storica dei padri fondatori dell’Europa, oltre che dell’Italia ricostruita, naturalmente. I cattolici hanno dato molto in impegno, idee, politica, proposte e prospettive per il futuro.
Oggi la marginalità dei cattolici, una timidità non è più consentita: ci viene in aiuto anche Papa Francesco che chiede di farsi prossimi ai periferici: dalla periferia possono venire nuove energie di bene, propulsive per la costruzione di una nuova politica vicina alla gente, che divenga protagonista. Per riuscire, io credo, bisogna tornare sulle strade, nei quartieri, riaprire quelle sedi di partito che una volta erano un po’ l’anima, il riferimento del quartiere ed ora non esistono più, o se ci sono, sono ben nascoste!
Bisogna tornare a parlare con la gente, perché ci sono tanti arrabbiati perché nessuno ascolta i loro problemi (e ce ne sono tanti da affrontare), ma già l’ascolto è un modo per prendersi carico e iniziare a costruire una nuova casa, un nuovo impegno. Il primo passo è l’incontro e l’ascolto, poi verrà l’impegno dopo aver ragionato, essersi confrontati e capito dove servirà l’intervento. Probabilmente all’inizio si sbaglierà o saremo contestati, ma è in conto: qualcuno dovrà accendere la prima scintilla per una nuova iniziativa, che parta dal basso, perché senza radici non reggerà.
Molto altro si potrebbe scrivere, con tante suggestioni proposte dall'intellettuale francese, ma l’importante è fissare i concetti e scendere in strada ad incontrare ed ascoltare. Poi si capirà qualcosa in più e si potrà agire per il meglio
Buon lavoro!
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