giovedì 23 dicembre 2021

La parità di genere è una realtà in Europa? #DonnealCentro #Discriminazione

La parità tra donne e uomini è uno dei principi fondanti dell'Unione europea. Negli ultimi decenni l'UE ha compiuto notevoli progressi per quanto riguarda la parità di genere. Tuttavia le disparità persistono e nel mercato del lavoro le donne continuano a essere sovrarappresentate nei settori peggio retribuiti e sottorappresentate nei livelli decisionali.  

L'azione dell'UE a favore della parità di genere è integrata in vari settori politici e mira a garantire pari diritti, quali l'uguaglianza nel processo decisionale, l'eliminazione della violenza di genere e del divario retributivo di genere. 

di Valeria Frezza

Nell'Unione europea (UE-27) le donne guadagnano in media il 16% in meno rispetto agli uomini, con differenze significative tra i vari paesi e adotta varie leggi, come quella sul diritto all'equilibrio tra vita professionale e vita privata. 

Le disuguaglianze di genere nell'istruzione persistono, ad esempio in termini di preferenze di studio. Le donne hanno maggiori probabilità di avere un diploma di istruzione superiore, ma continuano a essere sovrarappresentate in settori di studio legati a ruoli femminili tradizionali, come quelli connessi all'assistenza, e sottorappresentate in quelli della scienza e dell'ingegneria.

Il 33% delle donne nell'UE ha subito violenze fisiche e/o sessuali. 

L'UE mira a combattere la violenza di genere attraverso la legislazione e le misure pratiche sui diritti delle vittime in linea con la convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.

Infine, le donne sono meno rappresentate nelle posizioni direttive in diversi settori: politica, economia, scienza e ricerca. Solo il 7,5% dei presidenti dei consigli di amministrazione e il 7,7% degli amministratori delegati sono donne.

I cittadini dell'UE hanno a disposizione molti modi per combattere la disuguaglianza di genere. Individuare il problema è il primo passo e di chiedere aiuto il secondo.

Fonte: Europa.eu

mercoledì 22 dicembre 2021

Cosa sta succedendo in Bosnia-Erzegovina

Di Leonardo Gaddini

Sono passati ormai più di 25 anni dalla fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina e oggi purtroppo il fallimento dello Stato e perfino un nuovo conflitto non sembrano più esclusi. Il processo di trasformazione ipotizzato doveva trasformare la Bosnia in uno Stato moderno, multiulturale e pacifico, magari anche all'interno dell'Unione Europea, ma il risultato ottenuto è completamente insufficente oggi infatti tale processo è in stallo. Diversi anni di instabilità politica, crisi economica e riforme disattese hanno causato un forte malcontento popolare. La scena politica bosniaca è dominata da un "cartello" fra i principali Partiti etnici dei tre "popoli costitutivi" del Paese (come dice la Costituzione) i bosgnacchi musulmani, i croati cattolici e i serbi ortodossi. 

Non esistono infatti "Partiti nazionali", ma solo a livello federale, il Paese è infatti costituito dalla "Republika Srpska" a maggioranza serba, e dalla "Federazione Bosniaca", a maggioranza bosgnacca (a loro volta suddivise in vari Cantoni). La logica di partenza di queste suddivisioni territoriali era di garantire la continuità dell’unità statale, ma allo stesso tempo di dare a tutti i gruppi il controllo su parti del territorio. Infatti inizialmente le competenze che la Costituzione riconosceva allo Stato centrale erano minime, ma col tempo grazie alla pressione internazionale, i poteri dello Stato centrale sono aumentati specialmente in materie fiscali, di tassazione e giudiziari oltre all’unificazione dell’esercito. Queste e altre competenze ora statali sono considerate essenziali anche per la preparazione alla futura adesione all’UE.

Negli ultimi anni invece, con le loro posizioni differenti e le divisioni retoriche i Partiti etno-nazionalisti hanno creato un clima di guerra fredda interna, con blocchi reciproci e veti incrociati che impediscono ogni progresso. Mentre mobilitano il proprio elettorato con la paura e l’odio nei confronti dell’altro, tali Partiti formano allo stesso tempo un cartello efficace per la spartizione delle risorse creando un sistema clientelistico pervasivo che soffoca ogni opposizione. Tale sistema di "etnocrazia" viene rafforzato, di tanto in tanto, da qualche crisi costruita ad arte per assorbire l’attenzione e l’energia di tutti gli attori, internazionali e locali, come ulteriore garanzia che non ci saranno riforme. 

La tensione è aumentata alla fine dell’estate, dopo l’introduzione, promossa dall’Alto Rappresentate ONU, di un emendamento del codice penale bosniaco che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica e l’esaltazione dei criminali di guerra. Per Dodik e il suo Partito, è stato il pretesto per alzare il livello di uno scontro sempre presente. Nel giro di un paio di mesi, il leader serbo-bosniaco ha boicottato le istituzioni statali, per poi annunciare la creazione di diverse strutture parallele. A fine ottobre, inoltre, la polizia della Republika Srpska ha organizzato due diverse esercitazioni delle forze speciali per la prevenzione del terrorismo, una della quali molto vicino la capitale Sarajevo. Questa serie di eventi, conditi da toni minacciosi, ha rievocato nella popolazione le immagini della guerra civile. Tra le altre cose, i serbo-bosniaci chiedono l’abolizione del ruolo dell’Alto Rappresentante, attualmente ricoperto da Christian Schmidt. Questa richiesta è appoggiata anche dalla Russia, che ha minacciato di porre il veto al Consiglio di Sicurezza ONU in occasione del rinnovo della missione internazionale Eufor Althea qualora non fossero stati eliminati i riferimenti all’Alto rappresentante.

L’attuale crisi ha toccato l'apice quando il Parlamento della Republika Srpska ha approvato una riforma costituzionale che, unilateralmente, prevede il ripristino delle competenze originarie dello Stato federale, svuotando così lo Stato centrale. La riforma non sarà vincolante fino a quando il Parlamento della Federazione Bosniaca lo approverà (cosa che difficilmente accadrà). Tuttavia, come ogni crisi precedente anche quella attuale pone la domanda, se essa non sia diversa e più pericolosa. Per dare una risposta occorre notare il cambiamento del contesto. I 15 anni di disimpegno internazionale e di consolidamento dell’etnocrazia hanno peggiorato di molto la situazione interna.

Inoltre, la situazione geopolitica è cambiata: sotto la Presidenza Trump gli americani hanno cercato di promuovere uno scambio di territorio fra Serbia e Kosovo per “risolvere” il problema della diversità delle popolazioni, un messaggio devastante per la convivenza tra gruppi diversi in altre aree. La Cina e la Turchia hanno aumentato la loro presenza e i loro interventi nei Balcani a favore di parti diverse. Ma è soprattutto la Russia che, sostenendo il regime autoritario in Serbia e gli indipendentisti serbi della Bosnia-Erzegovina, persegue una strategia di divisione e conflitto per raggiungere il proprio interesse che consiste nella destabilizzazione della regione e nel bloccare l’espansione della NATO, oltre che nel creare l'ennesimo staterello con un Governo fantoccio a lui fedele (come in Transnistria, Bielorussia, ecc...).

Così, in Bosnia da anni la Russia non collabora più nel consiglio per l’attuazione dell’accordo di pace e ha contrastato la successione nella carica dell’Alto Rappresentante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Forti di tali divisioni della Comunità internazionale, i nazionalisti serbi guidati da Milorad Dodik, attualmente membro della Presidenza Collettiva della Bosnia-Erzegovina, sono tornati alle minacce di smantellamento dello Stato e di secessione oltre agli annunci di non riconoscere più l’autorità dell’Alto Rappresentante. La Comunità internazionale e l’UE non sembrano determinate a contrastare questo comportamento con delle misure forti (sanzioni mirate, rafforzamento della missione militare o simile), ma cercano di tranquillizzare tutti sperando che passi al più presto anche questa crisi. In concreto, secondo la mozione della Republika Srpska il Governo dell'entità dovrebbe nei prossimi sei mesi elaborare nuove leggi per l‘esercito, il sistema fiscale e il sistema giudiziario al fine di sostituire le attuali leggi statali, un chiaro passo verso la secessione.

Purtroppo la gente di Bosnia-Erzegovina vive ancora una volta nella paura del conflitto. La Comunità internazionale non dovrebbe sottovalutare il pericolo. Questo è il momento di dimostrare unità per proteggere e promuovere i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto in Bosnia-Erzegovina. Questo è il momento di lavorare per allentare le tensioni, utilizzando al meglio il dialogo multilaterale, la cooperazione e gli strumenti di coordinamento forniti dalle organizzazioni internazionali.

mercoledì 8 dicembre 2021

Riflessioni di #ForumalCentro sulla violenza contro le donne

Pubblichiamo di seguito alcune preziose riflessioni dei nostri partecipanti del gruppo #ForumalCentro:

di Erminia M.

Perché il 25 Novembre ritorni 365 volte in un anno.

Di anno in anno, indagine dopo indagine, l’Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali aggiorna i dati sulla violenza contro le donne in Europa, per suggerire (non ha poteri) interventi. Una percentuale stimata tra il 20 e il 25% di tutte le donne in Europa ha subito atti di violenza fisica almeno una volta nella vita adulta e circa l’8% delle donne ha subito violenze sessuali. L'indicazione più rilevante degli anni più recenti è l'aumento di forme di violenza praticate da mariti, partner o ex mariti o ex partner e l'aumento di donne uccise sul totale degli omicidi.

Le rilevazioni statistiche confermano che quattro donne su cinque non si sono rivolte a nessun servizio (sanitario, sociale o di assistenza alle vittime) a seguito degli episodi più gravi di violenza ad opera di persone anche diverse dal partner; le donne che hanno chiesto aiuto si sono rivolte più spesso ai servizi medici, fattore che sottolinea la necessità di garantire che i professionisti in ambito sanitario siano in grado di affrontare le esigenze delle vittime di violenza; due donne su cinque non erano a conoscenza delle leggi o delle iniziative politiche, che tutelano le donne in caso di violenza domestica, e la metà ignorava l'esistenza di leggi o iniziative di prevenzione.

Purtroppo quindi anche quest’anno il 25 Novembre è stata un’occasione per ripassare dati dolorosi su un fenomeno di incultura che mortifica la nostra umanità. 

La violenza contro le donne colpisce l’intera società, non una parte, perché viola le regole di base del vivere civile e tradisce i principi fondamentali della tutela della integrità e della dignità della persona. 

Bisogna fare di più e meglio affrontando con politiche mirate il problema nella sua complessità. Difendere compiutamente un target così diffuso ed eterogeneo da una minaccia che si manifesta, per lo più, attraverso comportamenti plurimi e distribuiti nel tempo richiede investimenti importanti. Per prevenire è necessario lavorare sul fronte della educazione, della istruzione, della informazione, del lavoro e per curare è necessaria una rete di assistenza altamente specializzata che possa prendere in carico in maniera globale le vittime e perché no i carnefici.

Considerando che, secondo la valutazione del valore aggiunto europeo, il costo annuo per l'UE della violenza di genere contro le donne è stimato a 228 miliardi di EURO nel 2011 (pari all'1,8 % del PIL dell'UE), di cui 45 miliardi di EURO all'anno in servizi pubblici e statali e 24 miliardi di EURO in perdita di produzione economica, se si intervenisse con azioni mirate il costo dell'investimento sarebbe sempre coperto dal risparmio ottenuto. I numeri (ahimè) servono per i rigoristi della spesa, che, anche nei settori sensibili, come quello della tutela delle persone e della loro integrità fisica, frenano, opponendo la mancanza di risorse.

L’Ue e l’Italia da anni lavorano sul lato più della punizione e della repressione  che di quello della presa in carico. Ma è una risposta tardiva e, peraltro, considerata l’inefficienza del sistema giustizia, non serve. 

La violenza inizia in ogni pensiero, azione ed omissione che porta un essere umano a far decadere la propria natura allo stato ferinico. La violenza è in  ogni atto contrario al rispetto della persona. Ed è da qui che si dovrebbe partire.

E bisognerebbe ricordare che la violenza di genere coinvolge vittime e autori di ogni età, livello di istruzione, reddito e posizione sociale ed è anche legata alla ripartizione iniqua del potere tra le donne e gli uomini nonché a idee e comportamenti basati su stereotipi radicati nella nostra società che è necessario combattere fin dalle primissime fasi della vita, al fine di cambiare gli atteggiamenti.

La povertà estrema semplicemente aumenta il rischio di violenza e di altre forme di sfruttamento che ostacolano la piena partecipazione delle donne a tutte le sfere della vita e il raggiungimento dell'uguaglianza di genere. 

È dunque sicuramente importante  rafforzare l'indipendenza e la partecipazione economica e sociale delle donne per ridurne la vulnerabilità nei confronti della violenza di genere.


di Valeria F.

La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. Tale violazione è una conseguenza della DISCRIMINAZIONE CONTRO LE DONNE dal momento che non si dimostra nessuna volontà concreta di dare finalmente dignità alle donne riconoscendo loro pari opportunità e condannandole invece all'ESCLUSIONE SOCIALE, subalternità e oggettificazione. Con la ratifica della CEDAW  (convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) gli Stati hanno assunto degli obblighi atti ad assicurare che le donne possano godere in concreto dei loro diritti fondamentali, di rimuovere le situazioni di disuguaglianza e la promozione del cambiamento culturale necessario per il riconoscimento della libera scelta della donna e della tutela della sua integrità psicofisica. Ma ad oggi ancora siamo lontani dal vederne gli effetti.

 

La data della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne segna anche l’inizio dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere che precedono la Giornata mondiale dei diritti umani che si celebra il 10 dicembre.

In molti paesi il colore esibito è il rosso e uno degli oggetto simbolo è rappresentato da scarpe rosse da donna.

 

Fino a novembre 2021 si contano 109 femminicidi. La sovrastruttura ideologica è di matrice patriarcale e lo scopo è di perpetuare la subordinazione delle donne, l’assoggettamento fisico e psicologico. Le storie dei femminicidi spesso cominciano con una richiesta di separazione, un sospetto sulla fedeltà della compagna, un litigio. Elementi come la brama di possesso, l’impossibilità di accettare un rifiuto, di controllare gli istinti violenti. 


di Armando D.

Come Forum al Centro dobbiamo sostenere e promuovere le seguenti proposte:

- reddito di libertà, si tratta di una misura voluta fortemente dalla ministra Elena Bonetti, grazie alla quale le donne, vittime di violenze, potranno ricevere 400 euro al mese, per un massimo di un anno. È un provvedimento importante che rende libere le donne di denunciare e soprattutto di ripartire con un sostegno economico iniziale.

- estensione delle tutele e protezioni previste dalla L. 6 del 2018. È una proposta della ministra Mariastella Gelmini, che prevede di proteggere le donne già dalla prima denuncia. Le donne che lo vorranno avrebbero così le stesse protezioni dei testimoni di giustizia.

- espandere la rete dei centri antiviolenza, destinando i beni confiscati alle mafie a tale destinazione. È una proposta della ministra Mara Carfagna grazie alla quale si potrebbero aumentare capienza e ramificazione territoriale dei centri che accolgono le donne che decidono di denunciare.

Si tratta di tre proposte che vanno sostenute per dare una risposta certa e immediata al tragico problema della violenza sulle donne.


di Giulio C.

  • Viviamo una situazione di grave dispersione di valori sociali

  • Questo contesto, in Italia, è sicuramente determinato dagli effetti di nuovi eventi che rimettono in discussione gli equilibri economici, demografici ed ambientali mondiali, ma anche dal ritardo se non dall’incapacità della politica italiana di interpretarli ed assumere conseguenti iniziative, di allineamento o di contrasto, perché il nostro Paese possa essere protagonista e non spettatore o magari subirne gli effetti negativi.

  • La scarsa qualità della politica ha spinto i cittadini in parte a rincorrere visionari populisti o radicali avversari delle istituzioni democratiche ed in altra grandissima parte a rifugiarsi nell’astensione dal voto, fenomeni che sono divenuti ancora più accentuati e gravi con l’esplosione ed espandersi della pandemia da Covid.

  • Questa caduta d’interesse per la buona politica ha evidenti e drammatiche conseguenze sull’attenzione che le rivolgono le nuove generazioni.

  • I giovani sono esclusi dalla possibilità di formarsi una identità e consapevolezza politica avendo i partiti, nella maggior parte dei casi, rinunciato ed hanno abbandonato la realizzazione di luoghi di dibattito, ricerca e informazione a loro dedicati.

  • Mancando un impegno concreto e democraticamente regolamentato dei partiti, nel loro funzionamento interno, per dar voce e rappresentanza all’interesse dei giovani, i social sono diventati i luoghi d’incontro e anche di aggregazione nei quali si sviluppano, in un contesto di assenza di regole, ragionamenti, discussioni, prevalentemente scontri e raramente pacate discussioni.

  • Questo passaggio, da luoghi votati alla costruzione di percorsi formativi e motivazionali aggreganti a spazi che sono aperti ad interessi e pulsioni diversi e spesso conflittuali per la forte ed incontrollata carica individualista, rappresenta un forte ostacolo alla costruzione di una cittadinanza positiva, interessata al funzionamento della macchina pubblica e delle Istituzioni, rivolta all’impegno civile piuttosto che alla critica demolitrice ed all’abbandono di modelli e comportamenti democratici e rispettosi dei propri simili.

  • Considerando che anche la scuola e le famiglie, quali gruppi primari di fondamentale importanza per una società in trasformazione continua, stanno subendo il peso del generale disorientamento, sono davvero pochi i riferimenti certi che i giovani hanno.

  • Eppure, c’è un patrimonio smisurato di passioni e di voglia di innovare di cui i giovani sono portatori. Lasciare che si deteriori in un mare d’indifferenza o di lagnanti luoghi comuni non rappresenta un buon servizio che la società - quella civile e quella istituzionale – stia facendo nella ricerca di un bene comune.

  • Più che di retorica i giovani hanno bisogno di buoni esempi, di narrazioni in positivo delle prospettive di cambiamento e progresso sociale, di coinvolgimento nei processi democratici di governo del Paese e delle città, di ascolto dei loro bisogni e di indirizzo alla progettazione delle risposte che dovranno dargli loro stessi. In poche parole, bisogna saperli ascoltare e saperli orientare alla costruzione della società che sarà.

  • Il programma, al quale dovrebbero lavorare insieme Istituzioni, famiglie, scuola, gruppi sociali organizzati, dovrebbe vederli non “soggetti su cui lavorare”, bensì coprotagonisti di tale lavoro perché assumano la politica quale strumento per cambiare in meglio la società e non quale fine per costruire carriere e ricchezze.

mercoledì 1 dicembre 2021

O di qua o di là

di Armando Dicone

 

Dall'attuale classe dirigente politica, risuonano i soliti accordi: "o di qua o di là"; "ripartire dal fronte contro le destre o le sinistre" a seconda di chi parla; "il voto utile" come se ci fossero voti inutili; "si vince al centro" questo è il più pericoloso, perché di solito vogliono solo il nostro voto, ma mai il nostro contributo ideale e programmatico; e tanti altri messaggi di cui la maggioranza degli italiani è davvero stanca, basta guardare i dati degli astenuti.

Parole vuote che ritornano ad ogni campagna elettorale, come se per governare un Paese bastasse essere contro qualcuno o qualcosa. 

 

Sono 30 anni che siamo costretti a subire questo schema destra contro sinistra e dopo tutti questi anni, nessuno dei protagonisti dice la verità: "questo sistema in Italia non funziona". Non voglio entrare nel merito del perché non possa funzionare, ma vorrei soffermarmi su un altro aspetto che può farci finalmente guardare al futuro: l'esigenza diffusa tra i cittadini di poter votare e partecipare ad un nuovo progetto, culturale e politico, centrale, indipendente e autonomo.

 

Ho raccolto alcuni sondaggi che fotografano, in maniera incontestabile, l'esigenza di molti italiani di avere una nuova offerta politica di centro, che vuol dire né con i populisti e né con i sovranisti, ma anche che non abbiamo bisogno di soluzioni del '900, ma dobbiamo guardare al futuro con quel sano "pragmatismo solido", che contraddistingue un'azione politica radicata nelle culture politiche del liberalismo, del popolarismo e del riformismo, ma senza barriere ideologiche che ne possano affossare l'elaborazione concreta del programma politico. Come già sperimentato nel nostro umile "Forum al Centro", sui temi e sulle proposte siamo sempre disponibili a fare sintesi, senza pregiudiziali ideologiche o inutili personalismi.

 

Un sondaggio di Ipsos, che ho già citato in un precedente articolo, mostra che la maggioranza degli astenuti, alle europee del 2019, si autocolloca nell'area di centro (42%).

Dato molto importante, che dimostra come lo spazio centrale abbia il più alto potenziale elettorale tra gli astenuti.

 

Il sondaggio SWG del 16 novembre, dimostra che il 22% degli intervistati "ritiene che ci sarebbe bisogno di un nuovo partito" nell'area di centro, di questi il 12% pensa che debba essere "slegato sia dal centrosinistra che dal centrodestra"; il 23% vorrebbe un nuovo partito "fuori dall'asse destra-sinistra", ma senza autodichiarsi di centro. Come si può notare, il 55% degli intervistati, la maggioranza, ritiene opportuno un nuovo progetto politico capace di superare il duopolio sinistra-destra. 

Da non sottovalutare è il 18% che vorrebbe un nuovo progetto nel "centrodestra moderato" e l'11% che lo vorrebbe nel "centrosinistra moderato e riformista". Tutti dati che dimostrano la volontà di creare un nuovo schema politico, fuori dalle logiche dello scontro diretto tra i due poli.

 

 

 

Ma cosa chiedono gli elettori intervistati, che vorrebbero un nuovo soggetto politico nell'area di centro?

 

 

 

Il 35%, la maggioranza, ritiene che il nuovo partito dovrebbe occuparsi di ridurre l'evasione fiscale e la corruzione, poi qualcuno racconta che questo tema non sia remunerativo dal punto di vista elettorale. Altri temi sono "sostenere una crescita economica inclusiva" (28%),  "ridurre le disuguaglianze sociali" (28%) e rendere lo Stato più moderno ed efficiente (27%).

 

Su questi temi è possibile trovare insieme le soluzioni? Io penso di sì, basta farlo con passione, umiltà e senza alcun retropensiero di tipo personale, il carrierismo verrà dopo e per chi lo vorrà. Continuo a pensare che sia arrivato il momento di mettere in campo merito, competenze e talenti, ognuno di noi deve assumersi il suo piccolo pezzo di responsabilità civica.

 

Adesso abbiamo il compito di mettere insieme donne e uomini, associazioni e movimenti, per tentare di trovare insieme temi e soluzioni condivise, dobbiamo organizzare la "domanda" affinché il nuovo progetto non sia solo una semplice operazione elettorale.

 

Grazie per l'attenzione.

martedì 16 novembre 2021

Webinar di ForumalCentro - "L'europeismo di De Gasperi"

 


Venerdì 19 novembre, dalle ore 18,30, su Zoom, si terrà il webinar organizzato da "Forum al Centro", dal titolo "L'europeismo di De Gasperi".

 

Ne discuteremo insieme all'onorevole Erminia Mazzoni, già parlamentare nazionale ed europeo.

 

Dopo la relazione iniziale di Mazzoni, ci sarà spazio per interventi e domande.

 

L'incontro è libero e gratuito e basterà inviare una email a forumalcentro@gmail.com per ricevere il link al webinar.

 

 Dal "discorso agli europeisti".

"È con profondo convincimento che io, come privato cittadino e come italiano, vengo qui tra voi per esternare in forma concreta l’aspi­razione che io, noi tutti e tanti italiani sentiamo, sia pure in forme diverse, all’unione o alla federazione dell’Europa; il bisogno che noi sentiamo in modo così perentorio di giungere ad una forma unitaria di questa nostra Europa per consolidarne le conquiste sociali e le forme democratiche per le quali lavoriamo così dura­mente e per assicurarne così la pace".

Alcide De Gasperi.

Roma, 4 novembre 1950.

domenica 14 novembre 2021

Nucleare? Parliamone!

Di Leonardo Gaddini

Il Parlamento Europeo ha proposto di innalzare l’obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 dal 40 al 60% rispetto ai livelli del 1990. Una direzione ambiziosa che richiederà, qualora approvata dal Consiglio Europeo, azioni immediate e profonde. La comunità scientifica ha già dimostrato che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane che hanno riversato nell’atmosfera una quantità senza precedenti di gas serra, come anidride carbonica e metano. Questi ultimi trattengono il calore impedendogli di fuoriuscire nello spazio, in maniera simile al vetro di una serra. 

Al fine di centrare gli obiettivi ambientali europei c’è quindi bisogno di una drastica e immediata riduzione delle emissioni di questi gas. Solo così, secondo gli scienziati, avremo qualche possibilità di evitare effetti irreversibili sul clima. Il settore energetico globale è oggi il maggior responsabile delle emissioni di gas serra. In Europa, la produzione di elettricità produce all’incirca il 35% delle emissioni totali. Occorrerebbe allora partire da qui, interrompendo il prima possibile la generazione di elettricità da fonti fossili come il carbone e il petrolio, che rilasciano un elevato quantitativo di CO2 come scarto dei propri processi di produzione dell’energia elettrica e puntando di più su fonti a minor impatto ambientale.

Il nucleare è oggi una delle forme più pulite di produzione dell’energia. Nonostante che il pensiero comune vedrebbe nei pannelli solari e pale eoliche qualitativamente migliori perché considerati poco inquinanti. In realtà questo vale solo per la fase di conversione dell’energia in sé. Produzione e smaltimento delle infrastrutture sono tutto un altro discorso, basti pensare che in un breve futuro si prevede che una pala eolica necessiterà di 1Kg di Ittrio ogni MW prodotto. Da qui nasce l’enorme problema dello sfruttamento ambientale e umano (un ipotetico impianto solare da 1000 megawatt richiederebbe 259km quadrati di estensione e circa un migliaio di volte il materiale necessario per costruire una centrale nucleare della stessa capacità)

C’è poi la questione degli accumulatori, la natura discontinua di queste fonti energetiche rende indispensabile un grande impiego di batterie, per accumulare energia quando mancano sole o vento. Questa energia poi, non essendo "stoccabile" per un tanto tempo, rischia quindi di non poter essere più disponibile quando ne avremo maggior bisogno. Bisogna poi considerare che per eguagliare la produzione annuale d’energia di una centrale nucleare di modeste dimensioni servirebbero più di 40km2 di pannelli solari e una rete enorme di infrastrutture, ben più articolate e costose, sia in termini economici che ambientali, ovviamente soggetta a manutenzione periodica. A dispetto quindi di discorsi populisti non esiste ancora un metodo di produzione dell’energia completamente privo di impatto ambientale, va da sé che l’impatto stesso debba essere rapportato alla quantità di energia prodotta. 

Le centrali nucleari si contraddistinguono invece per uno dei più bassi valori in termini di emissioni di CO2 nell’atmosfera, per esempio 1 libbra di uranio produce l'energia equivalente ottenuta con 35 barili di petrolio. 1 tonnellata di uranio produce più energia di diversi milioni di tonnellate di carbone e petrolio, e i costi di trasporto del carburante sono notevolmente inferiori e c'è meno impatto sull'ambiente dalle attività estrattive rispetto a quelle richieste dagli idrocarburi. Se consideriamo l’impatto sull’ambiente di diverse fonti energetiche dalla costruzione dell’impianto, alla generazione di energia e allo smantellamento della struttura, notiamo che l’energia nucleare registra tra i valori di emissioni più bassi per unità di energia prodotta. Un impatto addirittura più contenuto di quello dell’energia solare. E allo stesso tempo il nucleare presenta un vantaggio considerevole: è in grado di fornire grandi quantità di energia in modo costante e controllabile. Lo stesso possono fare anche le centrali idroelettriche e geotermiche, che però richiedono specifiche caratteristiche territoriali di cui non tutti i Paesi dispongono. Nel caso dell’idroelettrico, è inoltre utile sottolineare che a oggi nei Paesi più sviluppati i siti dal potenziale produttivo ed economico più alto sono stati per la maggior parte già utilizzati. 



Se veramente l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni, laddove grandi quantità di energia idroelettrica e geotermica non siano disponibili, il nucleare è dunque una delle soluzioni più efficienti per sostituire centrali a combustibili fossili nella produzione di energia adatta per sostenere il bisogno d'energia delle persone, senza pensare a stravolgimenti della vita degli individui. Il nucleare è dunque efficiente per il raggiungimento degli obiettivi climatici, in termini di affidabilità dei sistemi energetici nazionali (l’energia nucleare infatti garantisce una stabilità delle reti elettriche che difficilmente altri fonti rinnovabili riescono a offrire) e permette poi di ridurre la dipendenza di un Paese dalle importazioni energetiche necessarie per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.

Una delle cause che sta provocando la crisi energetica è che il nostro Paese per quanto riguarda il rifornimento dell'energia è fortemente dipendente è dagli altri Stati questo ci rende schiavi delle vicissitudini interne dei Paesi esteri, basti vedere cosa sta succedendo da anni con la Libia e con la Russia, che minaccia costantemente di "staccarci il gas" se non togliamo le sanzioni e che minaccia costantemente i Paesi dell'Est che tentano di avvicinarsi all'Occidente, di rimanere al freddo durante l'inverno. Un argomento spesso dibattuto poi quando si parla di energia nucleare è lo smaltimento delle scorie. Anche per questo problema i rischi si sono ridotti notevolmente perchè la tecnologia disponibile oggi permette lo stoccaggio degli scarti in sicurezza, senza porre rischi per l’ambiente.

Secondo la International Energy Agency (IEA), i Paesi dell'OCSE (non solo l'Italia) sono rimasti indietro perchè già nel 2019 solo poco più di 1/3 della nuova capacità nucleare annuale necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici del 2040 era stata installata a livello globale. E i trend dei prossimi anni non sembrano particolarmente più promettenti. Il nucleare è, infatti, una fonte energetica che ha ripetutamente incontrato delle forti resistenze popolari nei Paesi Occidentali, basti ricordare i 3 referendum abrogativi italiani del 1987, e, più recentemente, quello del 2011. Tutti tenutisi poco dopo incidenti nucleari fuori dalla norma, come Chernobyl e Fukushima e influenzati dalla comprensibile paura ed emotività. Tuttavia, il nucleare di ultima generazione è molto più sicuro ed efficiente di quello di allora e nella comunità scientifica ci sono sempre più voci autorevoli che guardano all’energia nucleare quale elemento indispensabile per una transizione energetica efficace. Penso dunque che sia arrivato il momento di smetterla con i soliti discorsi demagogici che da anni sentiamo su questo tema e iniziare a discuterne seriamente, dati alla mano, solo così potremo prendere le migliori decisioni a favore dell'ambiente e delle nuove generazioni.

mercoledì 10 novembre 2021

Twitter spaces di ForumalCentro - "Giovani in politica: passione e meritocrazia"

 Riflessioni ed interventi:

di Erminia Mazzoni

La politica priva di visione è la prima causa dell’inasprimento del conflitto tra generazioni.  La perdita della dimensione temporale nella elaborazione delle strategie di governo è l’effetto della incapacità di gestione dei problemi che ha gradualmente portato a caricare sulle spalle del paese un gravoso onere. L’’egoismo che ne è scaturito ha trasformato l’arte del programmare il futuro in pratica di sopravvivenza. I rappresentanti politici decidono del e sul presente. Vediamo banalmente come da 20 anni viene affrontato il tema delle pensioni: finestra dopo finestra per dar risposta alla domanda di ritiro di oggi come se non ci fosse un futuro.  I giovani, cioè il nostro domani, sono oramai parte di quelle che tradizionalmente sono le categorie fragili. È chiaro dunque che i millennials devono entrare in gioco senza attendere il passaggio del testimone. La partecipazione alle scelte di oggi è un imperativo per loro e per chiunque voglia costruire una prospettiva di vita che superi l’orizzonte dell’io e dell’ora e subito. La via maestra è quella della rifondazione di partiti espressione di culture identitarie, luoghi di formazione delle idee e di elaborazione di progetti, nei quali i rappresentanti della prossima generazione abbiano pieno diritto di cittadinanza. Partiti nei quali si milita per imparare ad essere classe dirigente del domani e ai quali si contribuisce attivamente da oggi. I giovani devono poter impegnare le proprie energie lavorando insieme ai decisori presenti per portare proposte. Altrimenti resta la via della protesta disorganica e non finalizzata.

 

di Raffaele Peralta

Molto spesso ci siamo sentiti dire che l’Italia non è un Paese per giovani. Noi giovani veniamo dimenticati dagli adulti, dalla società e dalla politica: paghiamo l’inesperienza data dall’età e l’assenza di un lavoro o reddito, che ci fanno apparire invisibili agli occhi dello Stato. Una soluzione a questo problema riguarderebbe l’aumento della partecipazione politica dei giovani. Questa questione è seria, ma nei ragazzi non manca di certo la passione: tanti giovani sono interessati alla politica, ma non trovano spazi nei quali iniziare a muovere i primi passi e partecipare attivamente. Serve creare questi spazi, incorporati a un sistema meritocratico non anagrafico, che si attiva dando ai giovani piccoli incarichi e adottando l’ordine del cursus honorum per le candidature.

Oltre ad essere dimenticati, siamo stati la categoria più colpita dalla pandemia, non dal punto di vista clinico, ma dal punto di vista sociale: in massa contro ogni pronostico abbiamo risollevato il Paese recandoci ad assolvere un dovere morale - la vaccinazione - permettendo di far rivedere la luce dopo due anni di buio totale. Qualcuno penserà che sia impossibile porre rimedio al dissidio tra giovani e politica, ma secondo me ci sono dei modi per superare il tutto. In primo luogo, i partiti e la politica dovrebbero parlare e affrontare argomenti e tematiche giovanili, candidare giovani, fare e creare reti e scuole di formazione politica. Parallelamente lo Stato e il Governo, invece, dovrebbero investire risorse su istruzione e politiche giovanili e riformare la scuola e l’università. Entrambi congiuntamente devono ascoltare i giovani, perché nessuno meglio di noi sa di cosa abbiamo bisogno, soprattutto perché la politica e gli adulti non possono mettersi nei nostri panni e interpretare le nostre istanze. In sostanza, bisogna occuparsi dei giovani, lavorare per e con loro. Perché i giovani non sono il futuro di questo Paese, ma il presente!


martedì 9 novembre 2021

Il nuovo liberalismo

di Luigi Einaudi

Poiché si parla di "nuovo" liberalismo, viene spontanea la scettica domanda: in che cosa il "nuovo" liberalismo si distingua dal "vecchio".

La risposta è ovvia: non esiste alcuna differenza sostanziale, di principio, fra i due liberalismi.

Il liberalismo è uno e si perpetua nel tempo; ma ogni generazione deve risolvere i problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi del domani.

Perciò anche i liberali debbono porsi ad ogni momento il quesito: come debbo oggi risolvere i problemi del mio tempo, in guisa che la soluzione adottata giovi a conservare il bene supremo che è la libertà dell'uomo, il che vuol dire la sua elevazione morale e spirituale? Il liberale non risolve i problemi d'oggi ripetendo come un pappagallo: libertà! libertà! Perciò i liberali possono essere ma non sono necessariamente "liberisti".

Sono tali in dati campi e sovrattutto in quello delle dogane per ragioni di calcolo economico e di convenienza morale- politica; ma non sono tali in altri campi.

Adamo Smith, colui che dagli illetterati (in "economica") è proclamato l'arci-liberista per antonomasia - ed i suoi seguaci sono detti, in segno di disprezzo, liberisti smithiani - è anche colui il quale proclamò che la difesa della patria è molto più importante della ricchezza: «defence is more important than opulence»; - difese storicamente l'atto di navigazione, ossia la protezione della marina mercantile; - scrisse parole di fuoco contro la proprietà assenteista della terra.

Non so che cosa scriverebbe Adamo Smith se vivesse oggi; ma certamente dovrebbe porsi e cercare di risolvere non i problemi del 1776, sì quelli del 1945.

I liberali negano che la libertà dell'uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e spirituali e politiche sia l'effetto.

L'uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche.

La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù.

Esiste un legame fra la libertà economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall'altro canto; ma è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica.

Non è vero che nella società moderna agli uomini faccia difetto la libertà perché la proprietà dei mezzi di produzione spetti ad una classe detta "capitalistica".

Astrazion fatta dalla circostanza che in molti paesi, e fra essi si devono noverare assai regioni italiane o, meglio, amplissime zone di ogni regione italiana, il numero dei "capitalisti" supera quello dei non capitalisti, ed astraendo anche dal fatto certissimo che la divisione della società nelle due classi dei capitalisti e dei proletari non è nemmeno una astrazione teorica atta a raffigurarci qualche aspetto fondamentale della storia umana e che invece le classi ed i ceti sono molti ed intrecciati e che non vi è quasi uomo, non vi è famiglia la quale non faccia parte contemporaneamente di parecchie categorie sociali; astrazion fatta da queste che sono circostanze di gran rilievo, fa d'uopo affermare che nessuna soluzione, né quella privata, né quella pubblica della proprietà dei mezzi di produzione, per se stessa è capace di aiutare a risolvere il problema della libertà.

Al limite, non lo risolve il sistema della proprietà privata piena, quiritaria, nella quale la terra, le acque, le miniere, gli impianti industriali, le scorte di lavorazione sono nel possesso assoluto del proprietario, che ne dispone come crede senza dover rendere conto a nessuno del suo operato.

Tutti i legislatori di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno negato il principio della disponibilità illimitata ed assoluta della cosa da parte del proprietario ed hanno fissato limiti entro i quali la libertà d'azione del proprietario deve muoversi.

Limiti più stretti per le miniere e per le acque, più larghi per la terra e più ampi ancora per i macchinari e le scorte.

La analisi economica moderna, ignorata a torto dagli scrittori socialisti, risale al libro scritto nel 1838 da Agostino Cournot ed addita nel "monopolio" il fattore essenziale e si può dire unico per cui la proprietà dei mezzi di produzione, cessando di rendere "servigi" e di farli pagare ad un prezzo uguale al costo minimo del produttore marginale, diventa invece causa di "disservizio" e fa pagare i beni prodotti a prezzi di monopolio, con guadagni inutili al punto di vista produttivo ed antisociali al punto di vista distributivo.

I liberali non dicono con Proudhon: la proprieté c'est le vol, la proprietà è il furto, ché la proposizione proudhoniana è falsa storicamente ed è smentita dall'esperienza quotidiana; ma affermano: le monopole c'est le vol, il monopolio è il furto.

Consapevoli della verità dell'analisi economica moderna, i liberali affermano che la schiavitù economica non è possibile là dove esiste la concorrenza, dove contro gli imprenditori esistenti, possessori di imprese in atto, agrarie industriali e commerciali, possono opporsi nuovi imprenditori, nuovi commercianti, nuovi speculatori sul futuro; ed affermano nel tempo stesso che là dove esiste il monopolio la produzione tende a diminuire, la domanda di lavoro ed i salari a diminuire, i profitti ultranormali a nascere ed ingigantire e la distribuzione del reddito nazionale a guastarsi a profitto di un numero ristretto di privilegiati ed a danno delle moltitudini.

Perciò essi non vogliono l'intervento dello stato contro la proprietà, la quale è risparmio, è indipendenza, è autonomia della persona, è continuità della famiglia, è stimolo ad avanzamento economico; e non vogliono distruggere né la proprietà privata dei beni di consumo, né quella degli strumenti di produzione.

I liberali non partono in guerra contro la ricchezza risparmiata, né contro quella ottenuta in libera concorrenza dagli uomini dotati di iniziativa, i quali osano, rischiano e riescono.

Essi non vogliono neppure sopprimere la speculazione, se questa vuol dire antiveggenza, adattamento dei mezzi presenti a bisogni futuri, che i più non veggono, che l'occhio di lince dei pochissimi scopre innanzi agli altri e di cui, scopertili, lo speculatore preordina, con lucro proprio e vantaggio di gran lunga maggiore dei più, i mezzi di soddisfacimento.

Ma i liberali vogliono, poiché essi l'hanno conosciuta, andare alla radice del male, del danno sociale, che è il monopolio.

Vogliono che la spada della legge scenda, inesorabile, su coloro i quali hanno costruito attorno alla propria impresa una trincea, per impedire l'accesso altrui a quel campo chiuso.

Poiché molti, forse la maggior parte dei monopoli, sono artificiali, ossia creati dalla legge medesima, essi vogliono abolite le proibizioni, i vincoli, i dazi, i privilegi i quali fanno sì che non tutti quelli i quali vogliono lavorare, lo possano, tutti quelli i quali vogliono iniziare nuove imprese, nuovi commerci, tutti quelli i quali vogliono muovere concorrenza alla gente già collocata, già a posto, riescano ad attuare i loro propositi.

Via i dazi, via i contingentamenti, via le concessioni esclusive, via i brevetti a catena perpetuantisi, via le società privilegiate, via le compagnie monopolistiche, via tutto ciò che soffoca, che, col pretesto di disciplinare, strozza gli uomini intraprendenti, e li costringe a corrompere coloro i quali danno le concessioni, i permessi, le licenze.

Ma i monopoli non sono soltanto quelli creati dalla legge, che, per abbatterli, basta volere distruggere la legge che li ha creati.

Vi sono anche monopoli "naturali", i quali traggono origine dalla impossibilità di moltiplicare le imprese concorrenti; e contro questi monopoli, i liberali vogliono l'intervento dello Stato, il quale a volta a volta assuma o controlli o regoli l'esercizio dell'industria monopolistica.

Essi ricordano che, tant'anni innanzi che la socializzazione divenisse una parola di moda, due grandi liberali, Camillo di Cavour e Silvio Spaventa, avevano voluto l'esercizio di stato delle ferrovie; rammentano che, col loro appoggio, Ivanoe Bonomi nel 1916 aveva dichiarato pubbliche, ossia nazionalizzate tutte le acque italiane da cui possono trarsi derivazioni di forza idraulica o di irrigazione.

Essi vogliono proseguire su questa via e sono pronti a proporre ed a discutere caso per caso la via più opportuna per sottrarre al dominio privato le industrie le quali abbiano chiare le caratteristiche monopolistiche; via la quale nell'un caso sarà quella dell'esercizio diretto, in un altro quello della creazione di enti autonomi, in un terzo quello della società anonima con maggioranza statale nel possesso delle azioni, e tal volta anche nell'esercizio delegato ad imprese private con quaderni d'onere rispetto all'esercizio ed alle tariffe.

Attorno ad un tavolo verde gli uomini di buona volontà possono e debbono mettersi d'accordo, avendo di mira lo scansare i due pericoli massimi, i quali incombono sul mondo economico moderno; il primo dei quali si è l'impero dei sindacati, dei consorzi, dei trusts, siano essi monopoli o sindacati di industriali o di lavoratori, ed il secondo si è la formazione del più colossale e spaventevole monopolio, che è quello dello stato.

All'altro limite invero, il luogo della proprietà privata assoluta è preso dalla proprietà assoluta dello stato padrone di tutti i mezzi di produzione.

Nessuna tirannia più dura si può immaginare di quella la quale fa dipendere la vita dell'uomo, la sussistenza della famiglia dalla volontà di chi comanda dall'alto.

Non ha importanza alcuna sapere se chi comanda si sia impadronito del potere con la forza o l'abbia ottenuto per elezione.

Importa invece sapere se chi vuole lavorare debba chiedere lavoro, avanzamento, agiatezza, fama, unicamente ad un capo, ad un gruppo che possiede il potere politico o possa, ove voglia, conquistare tutto ciò facendo appello direttamente, colle sue forze, ai compratori dei beni e servizi che egli crede di essere capace di offrire.

Dove tutto dipende dallo stato, ivi è schiavitù, ivi al posto dell'emulazione nasce l'intrigo, al luogo dei migliori trionfano i procaccianti.

Perciò i liberali vogliono sia distinto il campo dell'azione privata da quello dell'azione pubblica.

Discutiamo se questa specie di attività economica debba essere lasciata, e con quali regole giuridiche, all'iniziativa privata e se quell'altra specie debba invece essere assunta o concessa o regolata dallo stato.

Il criterio di distinzione tra l'uno e l'altro campo non è il piccolo od il grosso, il piccolo lasciato ai privati ed il grosso assunto dall'ente pubblico.

Questa è distinzione grossolana; ché il grosso merita di cadere nel campo pubblico solo quando esso sia sinonimo di monopolistico.

Ma i liberali non reputano che il problema del massimo di produzione sia il solo e possa essere posto da solo.

Quando anche si riesca a foggiare il meccanismo produttivo, per mezzo di una ricca varietà di tipi privati e pubblici di intrapresa, in guisa da raggiungere un massimo di produzione, noi avremo soltanto toccato un massimo entro i limiti della domanda esistente.

Se in un paese vi è un ricchissimo solo ed un milione di uomini sprovveduti di beni di fortuna, noi possiamo, sì ottenere un massimo di prodotto; ma è il massimo proprio di quel tipo di distribuzione della ricchezza.

Tutto diverso è il massimo che si otterrebbe in un altro paese dove tutti gli uomini avessero uguale reddito individuale.

Diversi i massimi e diversi i tipi e le varietà dei beni prodotti.

Noi liberali giudichiamo, per ragioni morali, detestabili ambi quei tipi, perché ambi forieri di servitù per gli uomini.

Servo nel primo paese il milione di uomini dell'unico proprietario, servi nel secondo di un tiranno, perché è impossibile mantenere tra gli uomini, disuguali per intelligenza, per attitudine al lavoro ed al risparmio, per inventività, la uguaglianza assoluta senza la più intollerabile costrizione.

Noi liberali auspichiamo una società nella quale la distribuzione del reddito nazionale totale sia siffatta che non esistano redditi inferiori al minimo reputato generalmente in ogni paese sufficiente alla vita che ivi può condursi in relazione alla massa totale del flusso del reddito nazionale; e non esistano neppure redditi permanentemente superiori ad un livello reputato socialmente pericoloso.

A tal fine due principalissimi strumenti debbono essere adoperati, dei quali l'uno è l'imposta e l'altro è la scuola.

L'imposta, sul reddito e successoria, deve essere congegnata in maniera da incoraggiare la formazione dei "nuovi" e dei "cresciuti" redditi e da decimare i redditi antichi e costituiti, sicché ad ogni generazione i figli siano costretti a rifare in parte ed i nepoti e pronipoti a rifar ancora per la restante parte la fortuna avita ove intendano serbarla intatta; sicché se non vogliano o non vi riescano siano costretti ad andare a fondo.

La scuola, al limite, deve essere congegnata in modo tale che tutti i giovani meritevoli possano gratuitamente, senza pagamento di tassa veruna, percorrere tutti gli ordini di scuola, dall'asilo infantile alle scuole di perfezionamento post-universitario, ed essere provveduti di vitto, alloggio, assistenza sanitaria, libri ed altri strumenti di studio.

Solo così sarà possibile abolire quella che è la macchia fondamentale dell'ordinamento sociale moderno; che non è tanto la disuguaglianza nelle fortune esistenti, rimediabile con l'imposta, quanto la disuguaglianza nei punti di partenza.

Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno dall'imposta costretti a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio e siano serbati ed onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio- ceto; quando il medio-ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.

Ben è vero che l'ideale di una società varia di tipi di intrapresa, di istituti pubblici e privati, ricca per l'aggiunta di sempre nuovi redditi e per la eliminazione dei redditi parassitari è un ideale che non può essere raggiunto in breve giornata.

Ma vi sono paesi i quali da quell'ideale non sono lontanissimi, dove in tempo di pace i massimi redditi pagano allo stato, ove non si calcoli il gravame delle imposte successorie e di quelle sui consumi, il 60-70 per cento del loro ammontare; ed in tempo di guerra assolvono il 97 per cento; dove le imposte successorie costringono alla liquidazione dei patrimoni aviti ed alla vendita dei libri dei quadri ed altri oggetti artistici familiari, coloro che non sanno col lavoro ricostituire ogni giorno le fortune ereditate; dove gli sforzi per garantire a tutti l'uguaglianza nei punti di partenza datano da più di cent'anni ed ognora vanno intensificandosi.

Questi paesi possono essere detti capitalistici da chi non ne conosce il meccanismo intimo e la sua capacità di adattamento; in verità essi tendono verso la creazione della città libera, nella quale a tutti gli uomini è dato, ove vogliano lavorare, di conquistare l'indipendenza economica, indipendenza da qualsiasi padrone, sia esso un privato imprenditore od un capo gerarchico o, peggiore di tutti i padroni, una entità misteriosa lontana anonima chiamata stato.

Se l'uomo può dire: questa è la mia casa, questa è la mia terra, questa è la mia arte, il mio mestiere, il mestiere del quale i miei simili hanno bisogno; se egli può ergere la fronte dinanzi a chi vuole imporgli un contrassegno di fede o di partito per consentirgli di lavorare, non perciò l'uomo è già libero.

Ma poiché egli possiede una riserva e non è più obbligato a mendicare altrui ogni giorno il diritto di lavorare, nemmeno da taluno che egli abbia in qualche giorno dell'anno eletto a suo capo, egli non è più schiavo e se anche egli non sia un eroe, se anche egli sia un uomo qualunque, uno dei molti uomini che trapassano facendo semplicemente il loro dovere, può credersi ed essere uomo libero.

 

Da "La Città Libera", 15 febbraio 1945.

domenica 24 ottobre 2021

Il caso Carvajal

Di Leonardo Gaddini.

L'ex generale dei servizi segreti venezuelani, Hugo Armando Carvajal Barrios, ha recentemente iniziato a collaborare con la giustizia spagnola per evitare di fare la stessa fine del narco-imprenditore Alex Saab e dell'ex infermiera e tesoriera dell'ex presidente Hugo Chávez, entrambi estradati la settimana scorsa negli USA dove sono finiti in carcere. Tra le varie informazioni "El Pollo", com'è chiamato Carvajal per via della sua piccola testa e del collo lungo, ha rivelato il piano top secret ideato da Chavez e continuato da Nicolas Maduro del finanziamento illecito della narco-dittatura ai politici dell'estrema Sinistra in tutto il mondo. Tra i vari Partiti nominati da Carvajal ci sono anche PODEMOS (attualmente al governo in Spagna) e il MoVimento 5 Stelle

Carvajal è stato colui che ha costruito tutta la struttura di intelligence del regime venezuelano. Questa struttura continua a funzionare ancora oggi e si occupa soprattutto della persecuzione e repressione degli oppositori. Nel 2008, il Dipartimento del Tesoro americano sanzionò Carvajal per avere avuto rapporti con i terroristi delle Forze Rivoluzionarie della Colombia (FARC) e con alcuni gruppi di narcotrafficanti per la consegna di droghe e di armi. Successivamente nel 2020, è stato accusato dalla Procura di New York ed è scappato in Spagna, ammettendo di avere più fiducia nelle istituzioni spagnole che in quelle venezuelane. Questo dopo avere perso il sostegno del regime di Maduro, nonostante fosse ancora deputato dell’Assemblea Nazionale per il Partito di governo, il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV).

Il Pollo ha descritto nel dettaglio alle massime autorità iberiche i 3 modus operandi che lui stesso attivava per inviare denaro sotto copertura ai Partiti politici alleati del chavismo, tra cui il M5S (per ora unico Partito italiano nominato nell'inchiesta). La tecnica più usata da Carvajal consisteva nell'usare borse diplomatiche venezuelane piene di contanti, adoperando consolati e ambasciate come meri distributori di cash. Carvajal ha snocciolato l'altro ieri nel suo scritto depositato agli atti i nomi di coloro che hanno ricevuto finanziamenti illeciti da Caracas. In primis: l'argentino Néstor Kirchner (ex presidente) in Argentina, Evo Morales (ex presidente) in Bolivia, Lula (ex presidente e candidato alle prossime elezioni presidenziali) in Brasile, Fernando Lugo (ex presidente e vescovo) in Paraguay, Ollanta Humala (ex presidente) in Perù, Manuel Zelaya (ex presidente) in Honduras, Gustavo Petro (ex sindaco di Bogotà) in Colombia, oltre che al Partito di Pablo Iglesias (ex vice Primo Ministro spagnolo) e al Partito di Grillo

Già nel giugno 2020 il giornale spagnolo ABC pubblicava anche lo stralcio di un documento dei servizi segreti venezuelani che avrebbe dimostrato il passaggio di 3,5 milioni, in contanti, consegnato a Gianroberto Casaleggio attraverso il console venezuelano a Milano. "Tutti questi sono stati a me segnalati come destinatari di denaro inviato dal governo venezuelano", ha espressamente detto Carvajal nel documento riservato inviato al giudice Manuel García-Castellón. Altri modus operandi per inviare denaro erano quello di spedire milioni in contanti in Spagna attraverso società di facciata oppure usare come bancomat di smistamento l'ambasciata cubana in Venezuela. Carvajal ha assicurato che il Venezuela finanzia illegalmente movimenti politici filochavisti nel mondo da almeno 15 anni e, secondo l'ex capo dell'Intelligence di Chávez, l'ultima consegna di cui sono a conoscenza risale ai primi di luglio del 2017. A chi non è dato sapere. Per ora... 

L'inchiesta è appena iniziata, ma quel che è sicuro è che da parte della presidenza della Repubblica venezuelana esiste dal 2002 un grande interesse a tutto ciò che in Europa, vecchio partito o movimento nascente che sia, possa essere coltivato come sponda amica. Finché era vivo Hugo Chávez questo delicato lavoro di ricerca di potenziali alleati europei da finanziare attraverso la PDVSA (l’industria pubblica del greggio venezuelano). Da lì Chávez curò i legami con la Sinistra francese, italiana, con quella londinese e, più tardi, con il movimento spagnolo PODEMOS.

Un esempio di ciò è il caso di Roberto Viciano e di Rubén Martínez, 2 professori dell'Università di Valencia e membri di PODEMOS, che hanno fondato il Centro di Studi Politici e Sociali (CEPS), una fondazione culturale che serviva per fare da tramite tra il Venezuela e la Spagna per far piovere su PODEMOS milioni di petrodollari chavisti. Il CEPS aprì un ufficio a Caracas e autorizzò una cittadina spagnola a rappresentarlo di fronte alle istituzioni locali, si aprì così un’autostrada per finanziamenti spostati a vario titolo dalle casse chaviste a quelle della fondazione. Tra il 2004 e il 2012 i soldi arrivati dalle casse pubbliche venezuelane alla CEPS furono 3,2 milioni di dollari, trasferiti in 52 operazioni diverse. Negli ultimi anni nonostante la grave crisi economica del Paese il CEPS ha continuato a ricevere soldi e risulta essere stata una delle 3 fondazioni culturali alle quali il CENCOEX, l'ente autorizzato dallo Stato a distribuire dollari, ha accordato elargizioni di denaro. L’ultimo pagamento risalirebbe al Natale del 2014 di 60.000 dollari.

I 5 Stelle, invece, sono sempre stati molto vicini al regime di Maduro. L’Italia infatti, proprio per la contrarietà grillina, è tra i paesi europei (gli altri sono solo Slovacchia e Cipro) che nel febbraio 2019 non ha riconosciuto come presidente ad interim l'oppositore Juan Guaidó. Una decisione arrivata al tempo del governo giallo-verde. Andando più indietro nel tempo, nel 2017, una delegazione del M5S guidata da Manlio Di Stefano (ex sottosegretario agli Affari Esteri), si recò in viaggio nel paese sudamericano in occasione del quarto anniversario della morte di Chavez. I Pentastellati poi presentarono alla Camera, in una risoluzione del 2017 dove denunciavano l'indebita ingerenza da parte della comunità internazionale in Venezuela.

Il caso di Carvajal sottolinea la natura criminale dell’organizzazione che da anni detiene il potere con la forza in Venezuela. Con l’arresto di personaggi del vertice del PSUV la dittatura risulta oggi meno forti davanti agli occhi della comunità e della giustizia internazionale. Queste persone attraverso le loro confessioni hanno fatto conoscere al mondo le attività e i legami del regime di Maduro con gruppi di narcotrafficanti, ma anche il finanziamento a un progetto geopolitico, che include l’America latina e parte dell’Europa, inclusi Partiti politici che in alcuni casi fanno parte attualmente dei governi di diversi Paesi. Questo scenario è un’opportunità per aprire indagini, che ovviamente riguardano ogni Paese, e lascia in chiaro un disegno internazionale, finanziato dal Venezuela verso diversi leader di Partiti politici che ambiscono al potere per imporre un progetto politico che ha come obiettivo minare le Democrazie occidentali.