Il leaderismo sta marcando la nostra storia politica più recente. Leader e leaderismo sono due realtà diverse. Berlinguer era un leader, come anche Longo, ma anche come Moro o Zaccagnini. Erano leader, uomini d’idee, ma anche grandi mediatori delle varie anime di un partito ed erano riconosciuti dalle pluralità interna come elementi di coesione e di innovazione. Nel leaderismo attuale, il leader non rappresenta la visione della volontà di un popolo, o di una parte di questo, bensì è lui che chiama, in un modo o in un altro, intorno a sé un popolo (o semplicemente una sua claque) e lo fa diventare il suo popolo. Oggi i leader sono icone pop. Possiamo dire che il leaderismo sta al leader come il litigio sta al confronto. In questo contesto ogni leader deve distinguersi dagli altri estremizzando le idee, le posizioni e, soprattutto, contrapponendosi duramente agli altri leader. Inevitabilmente si procede verso un’acutizzazione delle conflittualità, a un continuo scontro di tifoserie, a un tutti contro tutti. Stiamo assistendo a un innalzamento globale della temperatura sociale, sempre più spesso anche sovranazionale, e ci avviciniamo rapidamente verso il punto di non ritorno.
Quali strumenti abbiamo per imporre un cambiamento di rotta? I partiti, che sono (e dovrebbero tornare ad essere) il collegamento fra i cittadini e lo Stato, i primi custodi della democrazia. Oggi, però, i partiti sono scatole vuote di idee ma piene di ambizioni e propaganda. A ben vedere, la crisi della politica non è determinata dalla perdita di ruolo dei partiti, ma dal loro svilimento in funzione d’interessi privati o di lobbies. La nostra è una crisi di qualità della classe politica e dei criteri di selezione adottati. Se i partiti s’indeboliscono lo Stato non ha più ancoraggi con la società e diventa un’entità a sé stante, autoreferenziante. Di sicuro non è questa l’Italia che vogliamo lasciare ai nostri figli. Le donne in particolare hanno bisogno di fiducia nel futuro, di vedere l’oggi come radice del domani. Qui rientra la cultura di un’ecologica della politica, perché, la realtà, è un ecosistema dove tutto è collegato. Questo deve essere l’assunto base e consapevolezza per ogni nostra azione. Occorre saper ricercare l’armonia, l’interesse comune, il rispetto, la consapevolezza.
Nell’impresa il lavoro deve tornare ad avere una propria dignità. Questo deve essere chiaro se vogliamo creare il domani che i nostri figli devono pretendere da noi.
Quali strumenti abbiamo per imporre un cambiamento di rotta? I partiti, che sono (e dovrebbero tornare ad essere) il collegamento fra i cittadini e lo Stato, i primi custodi della democrazia. Oggi, però, i partiti sono scatole vuote di idee ma piene di ambizioni e propaganda. A ben vedere, la crisi della politica non è determinata dalla perdita di ruolo dei partiti, ma dal loro svilimento in funzione d’interessi privati o di lobbies. La nostra è una crisi di qualità della classe politica e dei criteri di selezione adottati. Se i partiti s’indeboliscono lo Stato non ha più ancoraggi con la società e diventa un’entità a sé stante, autoreferenziante. Di sicuro non è questa l’Italia che vogliamo lasciare ai nostri figli. Le donne in particolare hanno bisogno di fiducia nel futuro, di vedere l’oggi come radice del domani. Qui rientra la cultura di un’ecologica della politica, perché, la realtà, è un ecosistema dove tutto è collegato. Questo deve essere l’assunto base e consapevolezza per ogni nostra azione. Occorre saper ricercare l’armonia, l’interesse comune, il rispetto, la consapevolezza.
Nell’impresa il lavoro deve tornare ad avere una propria dignità. Questo deve essere chiaro se vogliamo creare il domani che i nostri figli devono pretendere da noi.
Fonte L'argine
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