martedì 16 novembre 2021

Webinar di ForumalCentro - "L'europeismo di De Gasperi"

 


Venerdì 19 novembre, dalle ore 18,30, su Zoom, si terrà il webinar organizzato da "Forum al Centro", dal titolo "L'europeismo di De Gasperi".

 

Ne discuteremo insieme all'onorevole Erminia Mazzoni, già parlamentare nazionale ed europeo.

 

Dopo la relazione iniziale di Mazzoni, ci sarà spazio per interventi e domande.

 

L'incontro è libero e gratuito e basterà inviare una email a forumalcentro@gmail.com per ricevere il link al webinar.

 

 Dal "discorso agli europeisti".

"È con profondo convincimento che io, come privato cittadino e come italiano, vengo qui tra voi per esternare in forma concreta l’aspi­razione che io, noi tutti e tanti italiani sentiamo, sia pure in forme diverse, all’unione o alla federazione dell’Europa; il bisogno che noi sentiamo in modo così perentorio di giungere ad una forma unitaria di questa nostra Europa per consolidarne le conquiste sociali e le forme democratiche per le quali lavoriamo così dura­mente e per assicurarne così la pace".

Alcide De Gasperi.

Roma, 4 novembre 1950.

domenica 14 novembre 2021

Nucleare? Parliamone!

Di Leonardo Gaddini

Il Parlamento Europeo ha proposto di innalzare l’obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 dal 40 al 60% rispetto ai livelli del 1990. Una direzione ambiziosa che richiederà, qualora approvata dal Consiglio Europeo, azioni immediate e profonde. La comunità scientifica ha già dimostrato che il cambiamento climatico è causato dalle attività umane che hanno riversato nell’atmosfera una quantità senza precedenti di gas serra, come anidride carbonica e metano. Questi ultimi trattengono il calore impedendogli di fuoriuscire nello spazio, in maniera simile al vetro di una serra. 

Al fine di centrare gli obiettivi ambientali europei c’è quindi bisogno di una drastica e immediata riduzione delle emissioni di questi gas. Solo così, secondo gli scienziati, avremo qualche possibilità di evitare effetti irreversibili sul clima. Il settore energetico globale è oggi il maggior responsabile delle emissioni di gas serra. In Europa, la produzione di elettricità produce all’incirca il 35% delle emissioni totali. Occorrerebbe allora partire da qui, interrompendo il prima possibile la generazione di elettricità da fonti fossili come il carbone e il petrolio, che rilasciano un elevato quantitativo di CO2 come scarto dei propri processi di produzione dell’energia elettrica e puntando di più su fonti a minor impatto ambientale.

Il nucleare è oggi una delle forme più pulite di produzione dell’energia. Nonostante che il pensiero comune vedrebbe nei pannelli solari e pale eoliche qualitativamente migliori perché considerati poco inquinanti. In realtà questo vale solo per la fase di conversione dell’energia in sé. Produzione e smaltimento delle infrastrutture sono tutto un altro discorso, basti pensare che in un breve futuro si prevede che una pala eolica necessiterà di 1Kg di Ittrio ogni MW prodotto. Da qui nasce l’enorme problema dello sfruttamento ambientale e umano (un ipotetico impianto solare da 1000 megawatt richiederebbe 259km quadrati di estensione e circa un migliaio di volte il materiale necessario per costruire una centrale nucleare della stessa capacità)

C’è poi la questione degli accumulatori, la natura discontinua di queste fonti energetiche rende indispensabile un grande impiego di batterie, per accumulare energia quando mancano sole o vento. Questa energia poi, non essendo "stoccabile" per un tanto tempo, rischia quindi di non poter essere più disponibile quando ne avremo maggior bisogno. Bisogna poi considerare che per eguagliare la produzione annuale d’energia di una centrale nucleare di modeste dimensioni servirebbero più di 40km2 di pannelli solari e una rete enorme di infrastrutture, ben più articolate e costose, sia in termini economici che ambientali, ovviamente soggetta a manutenzione periodica. A dispetto quindi di discorsi populisti non esiste ancora un metodo di produzione dell’energia completamente privo di impatto ambientale, va da sé che l’impatto stesso debba essere rapportato alla quantità di energia prodotta. 

Le centrali nucleari si contraddistinguono invece per uno dei più bassi valori in termini di emissioni di CO2 nell’atmosfera, per esempio 1 libbra di uranio produce l'energia equivalente ottenuta con 35 barili di petrolio. 1 tonnellata di uranio produce più energia di diversi milioni di tonnellate di carbone e petrolio, e i costi di trasporto del carburante sono notevolmente inferiori e c'è meno impatto sull'ambiente dalle attività estrattive rispetto a quelle richieste dagli idrocarburi. Se consideriamo l’impatto sull’ambiente di diverse fonti energetiche dalla costruzione dell’impianto, alla generazione di energia e allo smantellamento della struttura, notiamo che l’energia nucleare registra tra i valori di emissioni più bassi per unità di energia prodotta. Un impatto addirittura più contenuto di quello dell’energia solare. E allo stesso tempo il nucleare presenta un vantaggio considerevole: è in grado di fornire grandi quantità di energia in modo costante e controllabile. Lo stesso possono fare anche le centrali idroelettriche e geotermiche, che però richiedono specifiche caratteristiche territoriali di cui non tutti i Paesi dispongono. Nel caso dell’idroelettrico, è inoltre utile sottolineare che a oggi nei Paesi più sviluppati i siti dal potenziale produttivo ed economico più alto sono stati per la maggior parte già utilizzati. 



Se veramente l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni, laddove grandi quantità di energia idroelettrica e geotermica non siano disponibili, il nucleare è dunque una delle soluzioni più efficienti per sostituire centrali a combustibili fossili nella produzione di energia adatta per sostenere il bisogno d'energia delle persone, senza pensare a stravolgimenti della vita degli individui. Il nucleare è dunque efficiente per il raggiungimento degli obiettivi climatici, in termini di affidabilità dei sistemi energetici nazionali (l’energia nucleare infatti garantisce una stabilità delle reti elettriche che difficilmente altri fonti rinnovabili riescono a offrire) e permette poi di ridurre la dipendenza di un Paese dalle importazioni energetiche necessarie per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.

Una delle cause che sta provocando la crisi energetica è che il nostro Paese per quanto riguarda il rifornimento dell'energia è fortemente dipendente è dagli altri Stati questo ci rende schiavi delle vicissitudini interne dei Paesi esteri, basti vedere cosa sta succedendo da anni con la Libia e con la Russia, che minaccia costantemente di "staccarci il gas" se non togliamo le sanzioni e che minaccia costantemente i Paesi dell'Est che tentano di avvicinarsi all'Occidente, di rimanere al freddo durante l'inverno. Un argomento spesso dibattuto poi quando si parla di energia nucleare è lo smaltimento delle scorie. Anche per questo problema i rischi si sono ridotti notevolmente perchè la tecnologia disponibile oggi permette lo stoccaggio degli scarti in sicurezza, senza porre rischi per l’ambiente.

Secondo la International Energy Agency (IEA), i Paesi dell'OCSE (non solo l'Italia) sono rimasti indietro perchè già nel 2019 solo poco più di 1/3 della nuova capacità nucleare annuale necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici del 2040 era stata installata a livello globale. E i trend dei prossimi anni non sembrano particolarmente più promettenti. Il nucleare è, infatti, una fonte energetica che ha ripetutamente incontrato delle forti resistenze popolari nei Paesi Occidentali, basti ricordare i 3 referendum abrogativi italiani del 1987, e, più recentemente, quello del 2011. Tutti tenutisi poco dopo incidenti nucleari fuori dalla norma, come Chernobyl e Fukushima e influenzati dalla comprensibile paura ed emotività. Tuttavia, il nucleare di ultima generazione è molto più sicuro ed efficiente di quello di allora e nella comunità scientifica ci sono sempre più voci autorevoli che guardano all’energia nucleare quale elemento indispensabile per una transizione energetica efficace. Penso dunque che sia arrivato il momento di smetterla con i soliti discorsi demagogici che da anni sentiamo su questo tema e iniziare a discuterne seriamente, dati alla mano, solo così potremo prendere le migliori decisioni a favore dell'ambiente e delle nuove generazioni.

mercoledì 10 novembre 2021

Twitter spaces di ForumalCentro - "Giovani in politica: passione e meritocrazia"

 Riflessioni ed interventi:

di Erminia Mazzoni

La politica priva di visione è la prima causa dell’inasprimento del conflitto tra generazioni.  La perdita della dimensione temporale nella elaborazione delle strategie di governo è l’effetto della incapacità di gestione dei problemi che ha gradualmente portato a caricare sulle spalle del paese un gravoso onere. L’’egoismo che ne è scaturito ha trasformato l’arte del programmare il futuro in pratica di sopravvivenza. I rappresentanti politici decidono del e sul presente. Vediamo banalmente come da 20 anni viene affrontato il tema delle pensioni: finestra dopo finestra per dar risposta alla domanda di ritiro di oggi come se non ci fosse un futuro.  I giovani, cioè il nostro domani, sono oramai parte di quelle che tradizionalmente sono le categorie fragili. È chiaro dunque che i millennials devono entrare in gioco senza attendere il passaggio del testimone. La partecipazione alle scelte di oggi è un imperativo per loro e per chiunque voglia costruire una prospettiva di vita che superi l’orizzonte dell’io e dell’ora e subito. La via maestra è quella della rifondazione di partiti espressione di culture identitarie, luoghi di formazione delle idee e di elaborazione di progetti, nei quali i rappresentanti della prossima generazione abbiano pieno diritto di cittadinanza. Partiti nei quali si milita per imparare ad essere classe dirigente del domani e ai quali si contribuisce attivamente da oggi. I giovani devono poter impegnare le proprie energie lavorando insieme ai decisori presenti per portare proposte. Altrimenti resta la via della protesta disorganica e non finalizzata.

 

di Raffaele Peralta

Molto spesso ci siamo sentiti dire che l’Italia non è un Paese per giovani. Noi giovani veniamo dimenticati dagli adulti, dalla società e dalla politica: paghiamo l’inesperienza data dall’età e l’assenza di un lavoro o reddito, che ci fanno apparire invisibili agli occhi dello Stato. Una soluzione a questo problema riguarderebbe l’aumento della partecipazione politica dei giovani. Questa questione è seria, ma nei ragazzi non manca di certo la passione: tanti giovani sono interessati alla politica, ma non trovano spazi nei quali iniziare a muovere i primi passi e partecipare attivamente. Serve creare questi spazi, incorporati a un sistema meritocratico non anagrafico, che si attiva dando ai giovani piccoli incarichi e adottando l’ordine del cursus honorum per le candidature.

Oltre ad essere dimenticati, siamo stati la categoria più colpita dalla pandemia, non dal punto di vista clinico, ma dal punto di vista sociale: in massa contro ogni pronostico abbiamo risollevato il Paese recandoci ad assolvere un dovere morale - la vaccinazione - permettendo di far rivedere la luce dopo due anni di buio totale. Qualcuno penserà che sia impossibile porre rimedio al dissidio tra giovani e politica, ma secondo me ci sono dei modi per superare il tutto. In primo luogo, i partiti e la politica dovrebbero parlare e affrontare argomenti e tematiche giovanili, candidare giovani, fare e creare reti e scuole di formazione politica. Parallelamente lo Stato e il Governo, invece, dovrebbero investire risorse su istruzione e politiche giovanili e riformare la scuola e l’università. Entrambi congiuntamente devono ascoltare i giovani, perché nessuno meglio di noi sa di cosa abbiamo bisogno, soprattutto perché la politica e gli adulti non possono mettersi nei nostri panni e interpretare le nostre istanze. In sostanza, bisogna occuparsi dei giovani, lavorare per e con loro. Perché i giovani non sono il futuro di questo Paese, ma il presente!


martedì 9 novembre 2021

Il nuovo liberalismo

di Luigi Einaudi

Poiché si parla di "nuovo" liberalismo, viene spontanea la scettica domanda: in che cosa il "nuovo" liberalismo si distingua dal "vecchio".

La risposta è ovvia: non esiste alcuna differenza sostanziale, di principio, fra i due liberalismi.

Il liberalismo è uno e si perpetua nel tempo; ma ogni generazione deve risolvere i problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi del domani.

Perciò anche i liberali debbono porsi ad ogni momento il quesito: come debbo oggi risolvere i problemi del mio tempo, in guisa che la soluzione adottata giovi a conservare il bene supremo che è la libertà dell'uomo, il che vuol dire la sua elevazione morale e spirituale? Il liberale non risolve i problemi d'oggi ripetendo come un pappagallo: libertà! libertà! Perciò i liberali possono essere ma non sono necessariamente "liberisti".

Sono tali in dati campi e sovrattutto in quello delle dogane per ragioni di calcolo economico e di convenienza morale- politica; ma non sono tali in altri campi.

Adamo Smith, colui che dagli illetterati (in "economica") è proclamato l'arci-liberista per antonomasia - ed i suoi seguaci sono detti, in segno di disprezzo, liberisti smithiani - è anche colui il quale proclamò che la difesa della patria è molto più importante della ricchezza: «defence is more important than opulence»; - difese storicamente l'atto di navigazione, ossia la protezione della marina mercantile; - scrisse parole di fuoco contro la proprietà assenteista della terra.

Non so che cosa scriverebbe Adamo Smith se vivesse oggi; ma certamente dovrebbe porsi e cercare di risolvere non i problemi del 1776, sì quelli del 1945.

I liberali negano che la libertà dell'uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e spirituali e politiche sia l'effetto.

L'uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche.

La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù.

Esiste un legame fra la libertà economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall'altro canto; ma è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica.

Non è vero che nella società moderna agli uomini faccia difetto la libertà perché la proprietà dei mezzi di produzione spetti ad una classe detta "capitalistica".

Astrazion fatta dalla circostanza che in molti paesi, e fra essi si devono noverare assai regioni italiane o, meglio, amplissime zone di ogni regione italiana, il numero dei "capitalisti" supera quello dei non capitalisti, ed astraendo anche dal fatto certissimo che la divisione della società nelle due classi dei capitalisti e dei proletari non è nemmeno una astrazione teorica atta a raffigurarci qualche aspetto fondamentale della storia umana e che invece le classi ed i ceti sono molti ed intrecciati e che non vi è quasi uomo, non vi è famiglia la quale non faccia parte contemporaneamente di parecchie categorie sociali; astrazion fatta da queste che sono circostanze di gran rilievo, fa d'uopo affermare che nessuna soluzione, né quella privata, né quella pubblica della proprietà dei mezzi di produzione, per se stessa è capace di aiutare a risolvere il problema della libertà.

Al limite, non lo risolve il sistema della proprietà privata piena, quiritaria, nella quale la terra, le acque, le miniere, gli impianti industriali, le scorte di lavorazione sono nel possesso assoluto del proprietario, che ne dispone come crede senza dover rendere conto a nessuno del suo operato.

Tutti i legislatori di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno negato il principio della disponibilità illimitata ed assoluta della cosa da parte del proprietario ed hanno fissato limiti entro i quali la libertà d'azione del proprietario deve muoversi.

Limiti più stretti per le miniere e per le acque, più larghi per la terra e più ampi ancora per i macchinari e le scorte.

La analisi economica moderna, ignorata a torto dagli scrittori socialisti, risale al libro scritto nel 1838 da Agostino Cournot ed addita nel "monopolio" il fattore essenziale e si può dire unico per cui la proprietà dei mezzi di produzione, cessando di rendere "servigi" e di farli pagare ad un prezzo uguale al costo minimo del produttore marginale, diventa invece causa di "disservizio" e fa pagare i beni prodotti a prezzi di monopolio, con guadagni inutili al punto di vista produttivo ed antisociali al punto di vista distributivo.

I liberali non dicono con Proudhon: la proprieté c'est le vol, la proprietà è il furto, ché la proposizione proudhoniana è falsa storicamente ed è smentita dall'esperienza quotidiana; ma affermano: le monopole c'est le vol, il monopolio è il furto.

Consapevoli della verità dell'analisi economica moderna, i liberali affermano che la schiavitù economica non è possibile là dove esiste la concorrenza, dove contro gli imprenditori esistenti, possessori di imprese in atto, agrarie industriali e commerciali, possono opporsi nuovi imprenditori, nuovi commercianti, nuovi speculatori sul futuro; ed affermano nel tempo stesso che là dove esiste il monopolio la produzione tende a diminuire, la domanda di lavoro ed i salari a diminuire, i profitti ultranormali a nascere ed ingigantire e la distribuzione del reddito nazionale a guastarsi a profitto di un numero ristretto di privilegiati ed a danno delle moltitudini.

Perciò essi non vogliono l'intervento dello stato contro la proprietà, la quale è risparmio, è indipendenza, è autonomia della persona, è continuità della famiglia, è stimolo ad avanzamento economico; e non vogliono distruggere né la proprietà privata dei beni di consumo, né quella degli strumenti di produzione.

I liberali non partono in guerra contro la ricchezza risparmiata, né contro quella ottenuta in libera concorrenza dagli uomini dotati di iniziativa, i quali osano, rischiano e riescono.

Essi non vogliono neppure sopprimere la speculazione, se questa vuol dire antiveggenza, adattamento dei mezzi presenti a bisogni futuri, che i più non veggono, che l'occhio di lince dei pochissimi scopre innanzi agli altri e di cui, scopertili, lo speculatore preordina, con lucro proprio e vantaggio di gran lunga maggiore dei più, i mezzi di soddisfacimento.

Ma i liberali vogliono, poiché essi l'hanno conosciuta, andare alla radice del male, del danno sociale, che è il monopolio.

Vogliono che la spada della legge scenda, inesorabile, su coloro i quali hanno costruito attorno alla propria impresa una trincea, per impedire l'accesso altrui a quel campo chiuso.

Poiché molti, forse la maggior parte dei monopoli, sono artificiali, ossia creati dalla legge medesima, essi vogliono abolite le proibizioni, i vincoli, i dazi, i privilegi i quali fanno sì che non tutti quelli i quali vogliono lavorare, lo possano, tutti quelli i quali vogliono iniziare nuove imprese, nuovi commerci, tutti quelli i quali vogliono muovere concorrenza alla gente già collocata, già a posto, riescano ad attuare i loro propositi.

Via i dazi, via i contingentamenti, via le concessioni esclusive, via i brevetti a catena perpetuantisi, via le società privilegiate, via le compagnie monopolistiche, via tutto ciò che soffoca, che, col pretesto di disciplinare, strozza gli uomini intraprendenti, e li costringe a corrompere coloro i quali danno le concessioni, i permessi, le licenze.

Ma i monopoli non sono soltanto quelli creati dalla legge, che, per abbatterli, basta volere distruggere la legge che li ha creati.

Vi sono anche monopoli "naturali", i quali traggono origine dalla impossibilità di moltiplicare le imprese concorrenti; e contro questi monopoli, i liberali vogliono l'intervento dello Stato, il quale a volta a volta assuma o controlli o regoli l'esercizio dell'industria monopolistica.

Essi ricordano che, tant'anni innanzi che la socializzazione divenisse una parola di moda, due grandi liberali, Camillo di Cavour e Silvio Spaventa, avevano voluto l'esercizio di stato delle ferrovie; rammentano che, col loro appoggio, Ivanoe Bonomi nel 1916 aveva dichiarato pubbliche, ossia nazionalizzate tutte le acque italiane da cui possono trarsi derivazioni di forza idraulica o di irrigazione.

Essi vogliono proseguire su questa via e sono pronti a proporre ed a discutere caso per caso la via più opportuna per sottrarre al dominio privato le industrie le quali abbiano chiare le caratteristiche monopolistiche; via la quale nell'un caso sarà quella dell'esercizio diretto, in un altro quello della creazione di enti autonomi, in un terzo quello della società anonima con maggioranza statale nel possesso delle azioni, e tal volta anche nell'esercizio delegato ad imprese private con quaderni d'onere rispetto all'esercizio ed alle tariffe.

Attorno ad un tavolo verde gli uomini di buona volontà possono e debbono mettersi d'accordo, avendo di mira lo scansare i due pericoli massimi, i quali incombono sul mondo economico moderno; il primo dei quali si è l'impero dei sindacati, dei consorzi, dei trusts, siano essi monopoli o sindacati di industriali o di lavoratori, ed il secondo si è la formazione del più colossale e spaventevole monopolio, che è quello dello stato.

All'altro limite invero, il luogo della proprietà privata assoluta è preso dalla proprietà assoluta dello stato padrone di tutti i mezzi di produzione.

Nessuna tirannia più dura si può immaginare di quella la quale fa dipendere la vita dell'uomo, la sussistenza della famiglia dalla volontà di chi comanda dall'alto.

Non ha importanza alcuna sapere se chi comanda si sia impadronito del potere con la forza o l'abbia ottenuto per elezione.

Importa invece sapere se chi vuole lavorare debba chiedere lavoro, avanzamento, agiatezza, fama, unicamente ad un capo, ad un gruppo che possiede il potere politico o possa, ove voglia, conquistare tutto ciò facendo appello direttamente, colle sue forze, ai compratori dei beni e servizi che egli crede di essere capace di offrire.

Dove tutto dipende dallo stato, ivi è schiavitù, ivi al posto dell'emulazione nasce l'intrigo, al luogo dei migliori trionfano i procaccianti.

Perciò i liberali vogliono sia distinto il campo dell'azione privata da quello dell'azione pubblica.

Discutiamo se questa specie di attività economica debba essere lasciata, e con quali regole giuridiche, all'iniziativa privata e se quell'altra specie debba invece essere assunta o concessa o regolata dallo stato.

Il criterio di distinzione tra l'uno e l'altro campo non è il piccolo od il grosso, il piccolo lasciato ai privati ed il grosso assunto dall'ente pubblico.

Questa è distinzione grossolana; ché il grosso merita di cadere nel campo pubblico solo quando esso sia sinonimo di monopolistico.

Ma i liberali non reputano che il problema del massimo di produzione sia il solo e possa essere posto da solo.

Quando anche si riesca a foggiare il meccanismo produttivo, per mezzo di una ricca varietà di tipi privati e pubblici di intrapresa, in guisa da raggiungere un massimo di produzione, noi avremo soltanto toccato un massimo entro i limiti della domanda esistente.

Se in un paese vi è un ricchissimo solo ed un milione di uomini sprovveduti di beni di fortuna, noi possiamo, sì ottenere un massimo di prodotto; ma è il massimo proprio di quel tipo di distribuzione della ricchezza.

Tutto diverso è il massimo che si otterrebbe in un altro paese dove tutti gli uomini avessero uguale reddito individuale.

Diversi i massimi e diversi i tipi e le varietà dei beni prodotti.

Noi liberali giudichiamo, per ragioni morali, detestabili ambi quei tipi, perché ambi forieri di servitù per gli uomini.

Servo nel primo paese il milione di uomini dell'unico proprietario, servi nel secondo di un tiranno, perché è impossibile mantenere tra gli uomini, disuguali per intelligenza, per attitudine al lavoro ed al risparmio, per inventività, la uguaglianza assoluta senza la più intollerabile costrizione.

Noi liberali auspichiamo una società nella quale la distribuzione del reddito nazionale totale sia siffatta che non esistano redditi inferiori al minimo reputato generalmente in ogni paese sufficiente alla vita che ivi può condursi in relazione alla massa totale del flusso del reddito nazionale; e non esistano neppure redditi permanentemente superiori ad un livello reputato socialmente pericoloso.

A tal fine due principalissimi strumenti debbono essere adoperati, dei quali l'uno è l'imposta e l'altro è la scuola.

L'imposta, sul reddito e successoria, deve essere congegnata in maniera da incoraggiare la formazione dei "nuovi" e dei "cresciuti" redditi e da decimare i redditi antichi e costituiti, sicché ad ogni generazione i figli siano costretti a rifare in parte ed i nepoti e pronipoti a rifar ancora per la restante parte la fortuna avita ove intendano serbarla intatta; sicché se non vogliano o non vi riescano siano costretti ad andare a fondo.

La scuola, al limite, deve essere congegnata in modo tale che tutti i giovani meritevoli possano gratuitamente, senza pagamento di tassa veruna, percorrere tutti gli ordini di scuola, dall'asilo infantile alle scuole di perfezionamento post-universitario, ed essere provveduti di vitto, alloggio, assistenza sanitaria, libri ed altri strumenti di studio.

Solo così sarà possibile abolire quella che è la macchia fondamentale dell'ordinamento sociale moderno; che non è tanto la disuguaglianza nelle fortune esistenti, rimediabile con l'imposta, quanto la disuguaglianza nei punti di partenza.

Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno dall'imposta costretti a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio e siano serbati ed onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio- ceto; quando il medio-ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.

Ben è vero che l'ideale di una società varia di tipi di intrapresa, di istituti pubblici e privati, ricca per l'aggiunta di sempre nuovi redditi e per la eliminazione dei redditi parassitari è un ideale che non può essere raggiunto in breve giornata.

Ma vi sono paesi i quali da quell'ideale non sono lontanissimi, dove in tempo di pace i massimi redditi pagano allo stato, ove non si calcoli il gravame delle imposte successorie e di quelle sui consumi, il 60-70 per cento del loro ammontare; ed in tempo di guerra assolvono il 97 per cento; dove le imposte successorie costringono alla liquidazione dei patrimoni aviti ed alla vendita dei libri dei quadri ed altri oggetti artistici familiari, coloro che non sanno col lavoro ricostituire ogni giorno le fortune ereditate; dove gli sforzi per garantire a tutti l'uguaglianza nei punti di partenza datano da più di cent'anni ed ognora vanno intensificandosi.

Questi paesi possono essere detti capitalistici da chi non ne conosce il meccanismo intimo e la sua capacità di adattamento; in verità essi tendono verso la creazione della città libera, nella quale a tutti gli uomini è dato, ove vogliano lavorare, di conquistare l'indipendenza economica, indipendenza da qualsiasi padrone, sia esso un privato imprenditore od un capo gerarchico o, peggiore di tutti i padroni, una entità misteriosa lontana anonima chiamata stato.

Se l'uomo può dire: questa è la mia casa, questa è la mia terra, questa è la mia arte, il mio mestiere, il mestiere del quale i miei simili hanno bisogno; se egli può ergere la fronte dinanzi a chi vuole imporgli un contrassegno di fede o di partito per consentirgli di lavorare, non perciò l'uomo è già libero.

Ma poiché egli possiede una riserva e non è più obbligato a mendicare altrui ogni giorno il diritto di lavorare, nemmeno da taluno che egli abbia in qualche giorno dell'anno eletto a suo capo, egli non è più schiavo e se anche egli non sia un eroe, se anche egli sia un uomo qualunque, uno dei molti uomini che trapassano facendo semplicemente il loro dovere, può credersi ed essere uomo libero.

 

Da "La Città Libera", 15 febbraio 1945.