mercoledì 8 maggio 2024

L'innovatore attento, serio, senza retorica

 di Salvatore Colletti


Il nove maggio di quarantasei anni fa, in via Michelangelo Caetani, all’interno del bagagliaio di una  Renault 4 rossa, venne ritrovato il corpo di uno dei più prestigiosi leader della Democrazia  cristiana. 

Nel corso di questi anni, la figura di Aldo Moro è stata un po’ “relegata” al «caso Moro». Se la  speranza di sapere un giorno cosa sia effettivamente accaduto durante quei cinquantacinque  giorni, deve continuare a guidarci, allo stesso modo, penso e condivido le parole del prof. Renato  Moro, il quale ha affermato che non si possono ridurre quasi 62 anni di vita in un racconto legato  agli ultimi 55 giorni. Dunque se «si vuole davvero onorarne la memoria e farne conoscere il profilo  agli italiani» occorre «“liberare” Moro dal carcere brigatista, […] e occuparsi di lui come politico –  naturalmente – ma anche come intellettuale, come giurista, come cristiano, come uomo». 

Il pensiero moroteo è molto difficile analizzarlo tout court; il rischio è quello di interpretarlo in modo  banale. In questo contesto, mi limito ad affrontare due visioni che hanno orientato gran parte della  sua azione politica: la centralità della persona, nella sua inviolabilità, inoggettivabilità,  responsabilità, e la realizzazione della «democrazia compiuta», concepibile soltanto  parallelamente al precedente principio, in quanto per Moro, il concetto di democrazia non fu  «soltanto espressione di libera iniziativa [...] ma anche approfondimento della dignità umana nel  suo pieno significato, nelle sue integrali aspirazioni ed esigenze». 

La centralità della persona non ha caratterizzato soltanto l’impegno politico di Moro, ma anche – e  soprattutto – quello accademico, rendendolo un vero e coerente democratico cristiano. Una visione  maturata durante il percorso universitario, favorita dall’amicizia con monsignor Giovanni Battista  Montini – futuro Papa Paolo VI –, legata alle posizioni filosofiche del personalismo comunitario di  Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier; concezione, totalmente opposta al pensiero filosofico politico hegeliano diffuso dal regime fascista, che esalta – appunto – il valore della persona  umana: «lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato». 

Moro, già a partire dall’elezione in Assemblea costituente, cercò di fare in modo che la centralità  della persona non rimanesse un astratto principio ma diventasse uno dei cardini del nuovo Stato  da costruire. Questo suo contributo è stato propiziato dall’essere membro della «Commissione dei  75», con il compito di redigere il nuovo testo costituzionale, dove insieme ad altri giovani docenti  universitari – Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti – ha fatto convergere tutte le  forze politiche su questo concetto. Un suo intervento nella seduta del 13 marzo 1947, dedicata alla  discussione delle disposizioni generali del progetto di Costituzione, rappresenta una delle  testimonianze concrete di quanto fosse centrale la persona nel nuovo ordinamento. Il dibattito  riguardò i primi tre articoli della Carta costituzionale, ritenuti da Moro «la chiave di volta della  nostra Costituzione, il criterio fondamentale di interpretazione di essa», i cui principi rappresentano  i «tre pilastri» dello Stato: «La democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso – che Moro  definì – largamente umano». 

Lo Statista è stato, fin dall’inizio dei lavori in Commissione, favorevole al riconoscimento della  centralità del lavoro, voluto fortemente da La Pira. Durante il confronto che si creò tra il gruppo  comunista e quello democristiano, dal momento che l’onorevole Togliatti voleva qualificare l’Italia  come «Repubblica di lavoratori», Moro fu uno dei mediatori che elaborò, trovando anche il consenso del gruppo comunista, il primo comma dell’art. 1, sostenendo che la definizione di  Togliatti «avrebbe assunto fatalmente un significato classista». Nella formulazione del secondo  comma, asserì di essere molto favorevole a puntualizzare che la sovranità è esercitata «nelle  forme e nei limiti della Costituzione»; ritenne necessaria «un’indicazione di questo genere, la quale  servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità  dello Stato è la sovranità dell’ordinamento giuridico». E aggiunse che «non è il potere dello Stato  un potere o un prepotere, di fatto è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito  dell’ordinamento giuridico formato appunto dalla Costituzione». Un limite che, alla luce  dell’esperienza pre-repubblicana, servisse a tutelare i diritti, le libertà, la dignità della persona,  anche dallo Stato, ed essere una garanzia contro la possibilità di un nuovo potere assoluto, anche  se legittimato dal voto popolare. 

Non a caso, l’articolo seguente, il secondo delinea il volto del nuovo Stato, basato sulla centralità  della persona, sul rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sul pluralismo democratico, sul valore  della solidarietà. Proprio per questo, è l’articolo che meglio rappresenta l’idea di Stato che Moro  ebbe. Egli stesso affermò che con questo articolo si viene a delineare il volto dello Stato in «senso  largamente umano». E precisò: «Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio  dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se  non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e  nelle quali essa integra la propria personalità». 

Infine, nell’affrontare il terzo articolo, specificò che, con tale norma si trattava «di realizzare il più  possibile l’eguale dignità di tutti gli uomini». E continuò: «Non accontentiamoci di parole, di  dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che il più  possibile siano di fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini». 

Dopo la Costituente, Moro è stato ininterrottamente deputato dalla I legislatura. Nel 1948 fu  nominato sottosegretario al Ministero degli affari esteri e negli anni successivi ricoprì anche altri  prestigiosi incarichi: fu eletto presidente del gruppo parlamentare democristiano, nominato ministro  di grazia e giustizia e poi ministro della pubblica istruzione. 

Furono questi gli anni in cui avvertì sempre più la necessità di allargare la base popolare dello  Stato, di coinvolgere forze politiche escluse – in quegli anni – da ogni esperienza governativa, per  realizzare la vera «democrazia in senso politico». Affinché questo obiettivo si potesse realizzare,  era necessario superare la distinzione tra partiti “costretti a governare” e partiti “costretti a stare  all’opposizione”. Non potevano più esserci masse popolari escluse dalla vita politica dello Stato. 

Dopo la presa di posizione dei socialisti sull’invasione sovietica in Ungheria e, con gli anni,  l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia dal Partito comunista, Moro è stato tra coloro  che vide nel Partito socialista un interlocutore che, procedendo per fasi, poteva iniziare a essere  coinvolto in delle responsabilità di governo. L’apertura al dialogo con il Psi fu propiziata dalla sua  elezione, nel 1959, alla segreteria della Democrazia cristiana; proprio in qualità di segretario  politico, nella relazione al VII Congresso nazionale della Dc, pose in modo perentorio il problema  dell’inserimento delle masse popolari nella vita dello Stato: «Nessuna persona ai margini, nessuna  persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale». Dunque «la conciliazione delle masse  con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo  Stato di tutti». Il cambiamento dei socialisti rispetto al passato non fu riconosciuto da tutti, di  conseguenza fu chiamato a rassicurare colleghi di partito, elettori, ambienti scettici. Gli scontri, in  diverse parti d’Italia, che si sono verificati durante la breve fase del governo Tambroni,  confermeranno l’esigenza di una collaborazione con altre forze politiche.

L’inizio dell’apertura al Partito socialista si ebbe con la formazione del terzo governo Fanfani, noto  come «il governo delle convergenze parallele», un monocolore Dc con l’appoggio esterno del Pli,  Pri e Psdi, e con l’astensione dei socialisti. Il dialogo si rafforzò con le elezioni amministrative del  1960, con numerose giunte comunali che comprenderanno sia democristiani che socialisti; fu attraverso queste collaborazioni a livello locale che è stato possibile successivamente estenderle  anche a livello nazionale. Soltanto dopo le decisioni maturate durante l’ottavo Congresso  nazionale della Dc a Napoli, divenuto famoso per il lungo intervento di sei ore di Moro, si poté dare  vita a una nuova fase, quella del «centro-sinistra programmatico», con l’appoggio esterno da parte  dei socialisti, che portò al raggiungimento di importanti riforme: l’istituzione dell’Ente per l’energia  elettrica e la nascita della scuola media unica. Durante la quarta legislatura, dopo il breve periodo  della guida dell’esecutivo affidata a Giovanni Leone, Moro ricevette l’incarico di formare il suo  primo governo. E così l’artefice, lo stratega, «il maestro sottile di metodica pazienza», il 5 dicembre  1963 giurò al Quirinale, dando vita al «centro-sinistra organico», per formare un governo con  repubblicani, socialdemocratici, e con la partecipazione diretta del Partito socialista, portando a  compimento quel difficile percorso iniziato tre anni prima. I risultati da perseguire da  quell’esperienza furono illustrati da Moro alla Camera dei deputati nelle dichiarazioni  programmatiche del suo primo esecutivo: «Dare più vasta base di consenso e perciò maggiore  solidità allo Stato democratico, [...] favorire quel processo di sviluppo per il quale, nell’ordine  democratico, sempre più vaste masse di popolo sono protagoniste della nostra storia ed  effettivamente e largamente i cittadini godono dei diritti umani, civili ed economico-sociali che la  Costituzione repubblicana garantisce». 

Alla fine degli anni sessanta il centro-sinistra iniziò a entrare in crisi, a cui si affiancò un diffuso  desiderio di cambiamento nella società. Lo Statista di Maglie fu tra coloro che più di tutti capì  quegli anni, che quella irrequietezza diffusa tra la gente non era altro che il frutto di un profondo  desiderio di miglioramento. Lo testimonia uno dei suoi più famosi interventi, in occasione del  Consiglio nazionale Dc del 1968: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai.  Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra,  condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del  quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più  lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della  storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi  cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità». 

Nel pensare la «terza fase», Moro comprese che nei confronti del maggior partito di opposizione  fosse necessario «un atteggiamento chiaro, serio, costruttivo [...], riservando ad esso [...] una  doverosa attenzione e conversazione». L’inizio della VII legislatura, anche alla luce del sempre  minore distacco tra i due grandi partiti, vide il concepimento della solidarietà nazionale, con  l’astensione del Partito comunista al terzo governo Andreotti. L’inclinazione al dialogo, alla  mediazione dello Statista, diventò ancora più esplicita alla vigilia di un rimpasto che avrebbe  consentito al Partito comunista di votare la fiducia al governo: «Abbiamo cercato di adattare e di  approfondire questa linea di contatto reciprocamente istruttivo, sulla base non di un urto polemico  quotidiano, com’era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un  certo spirito costruttivo per ricercare se tra queste forze, in particolare tra queste due forze  antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza». 

Tuttavia, la nuova esperienza intrapresa si interruppe il 16 marzo 1978, con la strage di via Fani e  il rapimento di Moro, mettendo fine all’ambizioso tentativo di sblocco della democrazia italiana. 

Guardare oggi alla figura di Aldo Moro significa interessarsi a un diverso modo di fare politica, e il  politico. Penso sia stato tra coloro che hanno concepito la politica come un sublime servizio fatto all’uomo. La sua peculiarità è stata la flessibilità, ma soprattutto, alla luce delle profonde divisioni  che caratterizzavano il Paese, la capacità di dialogo e di confronto, riservata – soprattutto – a  coloro che avevano delle idee diverse dalle sue.  

Inevitabile non menzionare, alla luce delle precarie condizioni delle nostre strutture carcerarie,  l’interesse e le preoccupazioni di Moro nei confronti dei detenuti. Lo testimoniano le sue visite nelle  carceri, sia da ministro della giustizia, ma anche in qualità di professore di Istituzioni di diritto e  procedura penale, ritenendo che fosse fondamentale per gli studenti, che affrontano degli studi  giuridici, conoscere le condizioni, le sofferenze, di quella gente; forse per ricordare che rimangono,  anche se in una condizione di libertà limitata, delle persone. Probabilmente è stata questa sua  attenzione che meglio sintetizza quanto fosse importante per Moro il valore della persona umana. 

Concludo menzionando un ulteriore estratto dei discorsi di Moro, a cui mi sono ispirato nel dare il  titolo: «Il domani non appartiene ai conservatori e ai tiranni, ma appartiene agli innovatori attenti,  seri, senza retorica». Delle qualità che certamente hanno caratterizzato la sua personalità e ci  indicano un esemplare impegno politico a cui ispirarsi.


mercoledì 24 aprile 2024

La libertà delle donne è il termometro della civiltà sul pianeta

 di Valeria Frezza

La portata universale della lotta delle iraniane, e degli uomini al loro fianco, è la straordinaria occasione a livello globale di riaffermare a livello globale che la libertà delle donne è il primo indicatore della civiltà, dell’equità e del benessere sul pianeta Terra.

Si tratta, in primo luogo, del profondo e patologico imbarbarimento delle relazioni tra i sessi, dalla permanenza tossica di un patriarcato alimentato dalla distorsione perversa della fede religiosa che dimostra, per usare le parole dello psicoanalista Recalcati, come “credere fanaticamente in Dio sia un modo per rifiutare l’esistenza della donna e per continuare a odiare la vita”. 

La misoginia, l’odio verso le donne è, infatti, la plastica dimostrazione dell’avversione per l’esistenza umana tutta: senza la generatività delle donne, senza la libertà non c’è futuro per l’umanità orrendamente realizzatosi in paesi come l'Iran.

Ricordiamo il massacro della giovane donna Mahsa  Amini,  ma questi casi di violenza contro le donne che non indossano l'hijab sono molto frequenti. 

Armita Geravand, infatti, giovane donna di 16 anni morta dopo 18 giorni di coma il 23 ottobre 2023 e continua ancora adesso l'azione repressiva della polizia morale contro le donne che a loro dire, non si vestono in modo appropriato.


Fonte: Micromega

domenica 21 aprile 2024

Comunicato stampa del "Comitato referendario contro il Rosatelum"


Si è costituito il 17 aprile, presso lo Studio Notarile Fanfani-Pellegrino di Roma, il Comitato promotore del referendum per l’abrogazione parziale delle attuali leggi elettorali per la Camera e per il Senato, il cosiddetto Rosatellum.

Ne dà notizia l’ex senatore liberale Enzo Palumbo che, con Paolo Antonio Amadio e Sergio Bagnasco e in sinergia col compianto sen. Carlo Felice Besostri, ha curato la stesura dei quesiti referendari

Il comitato promotore è presieduto da Elisabetta Trenta, presidente d’onore è Giorgio Benvenuto, la vicepresidenza è affidata a Vincenzo Palumbo, Raffaele Bonanni, Sergio Bagnasco. La segreteria organizzativa è affidata a Riccardo MastrolilloLuigi Spanu e Thomas Agnoli. Il tesoriere è Pietro Morace.

Tra i numerosi componenti, Enzo Paolini, Marco Cappato, Nella Toscano, Paolo Antonio Amadio, Nicola Bono, Erminia Mazzoni, Mario Walter Mauro, Francesco Campanella, Mauro Vaiani, Matteo Emanuele Maino.

 

Martedì 23 aprile, alle ore 17:30, presso la sala stampa di Montecitorio, i promotori del referendum presenteranno agli organi d’informazione i quesiti referendari e la campagna per la raccolta delle firme.


https://coordinamentoperlarappresentanza.blogspot.com/2024/04/composizione-del-comitato-promotore-del.html

L’ufficio Stampa del Comitato Referendario Per La Rappresentanza

Per info e contatti

info@iovoglioscegliere.it

3489044343

venerdì 19 aprile 2024

La violenza e' il volto della discriminazione dell'uomo sulla donna #DonnealCentro

 di Valeria Frezza


Lavorare sulle misure di diritto penale e sulla cultura è fondamentale ma non sufficiente: per cambiare davvero le cose serve comprendere a fondo quanto la discriminazione nasca da rapporti di potere che continuano a favorire gli uomini.

La violenza contro le donne ha uno scopo discriminatorio, in quanto viene perpetrata per affermare le posizioni di potere e di dominio degli uomini sul libero arbitrio delle donne. La classificazione della violenza contro le donne come violenza di genere ha implicazioni legali significative, in quanto rappresenta una violazione di vari diritti e principi: il diritto all'integrità personale, all'onore e alla dignità, il divieto di tortura, la violenza sessuale e la discriminazione contro le donne. 

Per comprendere la violenza è necessario superare la logica della mera protezione e abbracciare l'idea che le donne debbano essere responsabilizzate eliminando le forme di discriminazione che limitano il loro spazio nella sfera economica, sociale e politica.


 Tratto da un articolo di Graziella Romeo, professoressa associata presso il Dipartimento di Studi Giuridici dell'Università Bocconi di Milano 

venerdì 5 aprile 2024

Malasorte o malasanità: vivere o morire

di Valeria Frezza & Stefano Colagrossi


Malasanità è un termine sempre più utilizzato nel gergo comune per indicare in realtà la situazione del nostro pregiatissimo sistema sanitario nazionale ma che adesso non funziona più per la continua incuria e mancanza di risorse che nel corso degli anni sono stati tolti e non è stato nemmeno previsto un finanziamento ad hoc in seguito alla pandemia covid-19 dove i tanto "osannati" medici ed infermieri che si sono prodigati per curare i pazienti, sono caduti nel dimenticatoio.

L'articolo 32 che recita testualmente "Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti", non è più garantito in quanto il malcapitato che deve recarsi all'ospedale per una malattia (anche grave) e che necessita di cure urgenti, si trova spesso buttato per giorni in un pronto soccorso senza ricevere le dovute cure. Abbiamo constatato di persona questa situazione, in quanto un nostro caro prossimo, di soli 52anni, ricoverato in un noto ospedale romano, dopo una pesante settimana trascorsa su una lettiga nel corridoio del pronto soccorso e ricoverato solo dopo che i parenti si sono rivolti alla polizia, ha ricevuto la diagnosi di una grave malattia e nessuna cura. E' deceduto 2 mesi dopo, tra lo stupore anche dei medici, che ancora non avevano ancora programmato le terapie opportune. 




Di esempi ne potremmo fare tanti ma ciò che sorprende di più è la totale assenza di dibattito sull'argomento e il disinteresse della politica.

L'aspetto più evidente riguardano i tempi di attesa dove un semplice cittadino per fare una visita od un accertamento diagnostico è praticamente costretto a rivolgersi al privato (che spesso è lo stesso dottore che lavora all'ospedale pubblico) con esborso di soldi che non tutti si possono permettere. Così è evidente che è impossibile fare prevenzione!

Alla fine diventa una guerra tra poveri con accuse reciproche tra persone che appare perfino grottesca.

Sta ad ognuno di noi prendersi cura della propria salute cercando di ripristinare il diritto alla salute di tutti che è venuto a mancare nel nostro paese promuovendo un dibattito su questo tema e spronando i politici ad occuparsene senza bandierine.


mercoledì 3 aprile 2024

Il regime bipopulista

 di Armando Dicone & Stefano Colagrossi


Qualcuno dei nostri amici ci potrebbe accusare di aver scelto un titolo forte.

Siamo sempre stati moderati nei toni e nel linguaggio, tranne quando qualcuno considera il nostro voto non “utile”. Perchè il nostro voto dovrebbe essere inferiore o non considerato rispetto al altri? La Costituzione non tutela tutti gli individui?

 

Sono decenni che i promotori della cosiddetta “seconda Repubblica” si inventano sistemi elettorali per escludere il voto dei centristi. Per loro conta solo lo scontro sinistra-destra, o di qua o di là. Un sistema voluto e studiato non per governare, ma per l’autoconservazione della sedicente classe dirigente.

 

L’ultimo episodio raccapricciante è emerso dal voto in Sardegna: 63.100 cittadini, che hanno scelto la coalizione Soru, sono senza rappresentanza in consiglio regionale. Una legge elettorale con soglia al 10% (per le coalizioni) è assolutamente contraria alle regole democratiche. Perché dobbiamo essere costretti a votare per la coalizione di destra o di sinistra?

Perché il nostro voto è utile solo se “porta acqua” al vostro finto mulino sapendo a priori che le nostre istanze non saranno prese in considerazione?

Domande che spingono tanti elettori a non recarsi alle urne, vedi il voto in Abruzzo.

Stessa dinamica che accade alle elezioni politiche. Il voto per una lista di centro vale meno di un voto dato ad una lista collegata alle coalizioni di destra e sinistra.

 

Chiedono “pieni poteri” con il 25% delle preferenze, vota un italiano su due, ma loro si dichiarano vincitori.

 

Per coprire la sempre più crescente disaffezione verso le urne (con l’astensione che in ogni tornata elettorale raggiunge la metà dei votanti) si sceglie il premierato e non la riconquista degli elettori. Premierato che azzera l’ampia e ricca cultura politica italiana per un noi contro loro e che accresce lo scontro sociale invece che valorizzarlo e rappacificarlo. Riforma che, per colmare la mancanza di sostegno degli elettori, tenterà di accentrare più poteri possibili tra il sempre meno entusiasmo degli elettori.

 

Tutto questo non è un regime?

 

Questo sistema bloccato si manifesta quotidianamente anche nei media, infatti, ogni giorno i protagonisti della “politica tribale” vanno in scena nei talk show.

Uno scontro perenne che si ripercuote anche nelle Istituzioni.

L’analfabetismo istituzionale tira per la giacchetta perfino il Presidente della Repubblica, costretto a ricordare a tutti i protagonisti politici e dell’informazione che: "Il Presidente della Repubblica non firma le leggi, ne firma la promulgazione, che è una cosa ben diversa. È quell'atto indispensabile per la pubblicazione ed entrata in vigore delle leggi, con cui il Presidente della Repubblica attesta che le Camere hanno entrambe approvato una nuova legge, nel medesimo testo, e che questo testo non presenta profili di evidente incostituzionalità”. Sergio Mattarella, 6 marzo 2024.

 

Questo sistema non funziona, superiamolo o il declino non si fermerà.

 

Grazie per l’attenzione.

lunedì 4 marzo 2024

Premierato: Si o No?

di Giovanni Battista Bruno

Gli amici di ForumalCentro mi hanno chiesto di scrivere in tema di premierato. E di farlo con lo sguardo del giurista, piuttosto che dalla prospettiva del tifoso. Anche in questa legislatura, infatti, si sta celebrando il rito, ormai trentennale, delle cosiddette riforme. È dunque il turno della “proposta Casellati”, che, come altre che l’hanno preceduta, viene presentata dai suoi fautori come lo “snake oil” capace di guarire ogni male della politica italiana, e dai suoi oppositori come l’anticamera dell’autocrazia.

Per mettere in prospettiva le questioni di fondo, sarebbe necessario inquadrare la proposta anzidetta nell’alveo delle altre, realizzate o tentate, nell’ultimo trentennio. A partire, dunque, dalla “madre di tutte le sciagure”, come ebbi modo di definire, in altro luogo ed in altro tempo, l’iniziativa referendaria di Mariotto Segni contro la legge elettorale proporzionale, finalizzata a favorire un “bipolarismo anglosassone” che esisteva solo nelle fantasie del comitato referendario. Tali iniziative muovono tutte, infatti, dall’errata prospettiva di rispondere ai problemi del sistema politico italiano, che sono di tipo istituzionale – e si riassumono essenzialmente nella crisi del modello partitico – con alchimie di tipo costituzionale. Una simile analisi, tuttavia, richiederebbe un saggio, sicché nella presente sede ci si concentrerà – seppure con il caveat di cui sopra – solo sull’ultima proposta di riforma: il cosiddetto premierato elettivo.

In via di approssimazione si può dire che la democrazia moderna si esplica principalmente attraverso due sistemi: quello parlamentare e quello presidenziale. Nel primo – il cui epigono è il sistema britannico – l’elettorato attivo elegge il Parlamento, che è il cuore della sovranità popolare, e quest’ultimo, tramite il meccanismo della “fiducia”, assegna la funzione esecutiva ad un governo (tipicamente, ma non necessariamente, formato da parlamentari “di maggioranza”). I provvedimenti del Governo devono essere approvati dal Parlamento e la fiducia può essere revocata, ed il governo sostituito, dalla maggioranza parlamentare. Nel secondo – il cui modello più riuscito è senz’altro il presidenzialismo americano – gli elettori eleggono, in tempi diversi, tanto il Parlamento – a cui è affidata solamente la funzione legislativa – quanto il capo del governo (il Presidente degli Stati Uniti), a cui spetta solo quella esecutiva. Il sistema è dunque a due cuori, se così si può dire, e si regge su un articolato meccanismo politico-istituzionale di pesi e contrappesi (checks and balances) che garantiscono l’indipendenza dell’azione governativa da quella legislativa e viceversa.

Il premierato – che ha conosciuto storicamente una sola, infelicissima, incarnazione in Israele – è, invece, un ibrido. Il Capo del Governo è eletto direttamente dal corpo elettorale (come in un sistema presidenziale), ma simultaneamente al Parlamento, da cui deve ricevere la fiducia (come in un sistema parlamentare). La fiducia, però, non può essere revocata (o, come prevede la proposta Casellati, può esserlo solo una volta, e a determinate condizioni), pena lo scioglimento contestuale delle Camere. La fiducia risulta, dunque, un passaggio pleonastico e la funzione di controllo del Parlamento è minata in radice dal ricatto che regge il suo rapporto con il Premier e che potremmo riassumere nella formula “se mi cacci vai a casa anche tu”. Sappiamo bene, infatti, quanto i parlamentari siano restii ad accorciare le legislature.

Il premierato raggiunge, dunque, il non facile obiettivo di violare tanto i principi del sistema parlamentare quanto quelli del sistema presidenziale, come aveva già spiegato vent’anni fa il Prof. Giovanni Sartori nell’articolo “Premierato Forte e Premierato Elettivo” (edito dalla Rivista Italiana di Scienza Politica, a. XXXIII, n. 2, agosto 2003), di cui consiglio la lettura a tutti coloro che sono interessati ad approfondire. Come già notava Sartori (non necessariamente un fautore del parlamentarismo o un difensore del proporzionalismo), con «premierato» si intende in effetti un sistema, né parlamentare né presidenziale, in cui il potere esecutivo “sovrasta il potere legislativo”, e in cui il governo domina sull’assemblea, pur avendone comunque bisogno per l’approvazione dei provvedimenti. Secondo i suoi fautori, da questo impianto deriverebbe un “governo forte”, e dunque efficace nella sua azione. Ciò risponderebbe all’esigenza di assicurare una democrazia “decidente” non paralizzata da veti incrociati e di riavvicinare alle istituzioni i cittadini, delusi dai “giochi di palazzo” che ne frusterebbero il voto. È davvero così? Mi pare il caso di indagare più a fondo.

Il primo assunto è che la “forza” del governo deriverebbe, da un lato, dall’investitura popolare del suo Capo e, dall’altro, dall’impossibilità sostanziale del Parlamento di rimuoverlo. L’investitura plebiscitaria e l’inamovibilità del Premier sarebbero, dunque, la garanzia dell’efficacia dell’azione di governo. C’è da chiedersi, però, se tale tesi sia fondata. A chi ritiene che il fallimento israeliano – dove l’esperimento del premierato fu cancellato dopo tre prove disastrose – sia insufficiente a condannare la formula, si può ricordare che un sistema assai simile vige nei grandi comuni, i cui Sindaci sono eletti direttamente dai cittadini contestualmente alle giunte e sono con esse in rapporto simul stabunt simul cadent (ossia, sono sostanzialmente inamovibili). L’esperienza ci insegna che dal combinato disposto di plebiscitarismo ed inamovibilità non discende affatto l’efficacia dell’azione amministrativa. Al contrario, abbiamo assistito a casi di conclamata incapacità del Sindaco a far funzionare la giunta (il riferimento a Virginia Raggi non è puramente casuale) che, proprio per l’effetto della inamovibilità del Primo Cittadino, hanno prodotto il protrarsi della paralisi amministrativa – ossia il contrario dell’efficacia amministrativa – per l’intera sindacatura. E Roma non è il solo caso. Se, dunque, molti concittadini hanno già sperimentato i guasti prodotti da un Sindaco incapace di governare, ma inamovibile, non è per nulla difficile immaginare quali disastri potrebbero causare al Paese cinque anni di paralisi dell’esecutivo, stretto nella morsa del duplice ricatto tra il Premier, che non può essere rimosso, e il Parlamento, che non può rimuoverlo, ma può impedirgli di governare. Per non dire che una cosa è amministrare (che è il compito dei Sindaci), altra è coordinare e decidere l’indirizzo politico generale, che è la funzione del Presidente del Consiglio.

È dunque dimostrato che il primo assunto è falso: l’inamovibilità del Primo Ministro non determina l’efficacia dell’azione di governo. In molti casi, anzi, produce una paralisi prolungata. Se, come diceva Sartori, il principale pregio del sistema parlamentare è la capacità di “autocurarsi” in corso d’opera, ed il principale pregio del sistema presidenziale è la presenza di un sistema di contrappesi senza co-gestione, il premierato fallisce sotto entrambi i profili.

Quanto, poi, al secondo punto portato dai fautori della riforma, ossia che favorirebbe la cosiddetta democrazia “decidente” contro il “trasformismo” parlamentare, se in tali argomenti si legge il riflesso dello storico cavallo di battaglia della destra italiana contro i ribaltoni parlamentari (e contro il Parlamento, in buona sostanza), non possono non notarsi anche significative incongruenze.

Si è detto che il premierato vorrebbe reggersi sul ricatto insito nella formula simul stabunt simul cadent (il prezzo della sfiducia al Premier è l’autoscioglimento delle Camere), corretto tuttavia dalla possibilità di sostituire il Premier, una sola volta, con altro candidato eletto con la medesima maggioranza. Ciò implica che il Premier eletto dal popolo sarebbe in verità sostituibile (entro certi limiti), mentre il vero Primo Ministro inamovibile sarebbe, a ben vedere, il “secondo”, ossia il Premier nominato dal Parlamento in sostituzione del Premier eletto. La successiva precisazione dei proponenti che l’incarico al secondo Premier potrebbe essere conferito solo in ipotesi di morte, dimissioni o impedimento permanente del primo non supera l’aporìa di un sistema che prevede lo scioglimento automatico delle Camere in caso, ad esempio, di dimissioni del secondo Premier (quello non eletto dal popolo), ma non necessariamente lo scioglimento delle Camere in caso di dimissioni del primo (quello munito di investitura popolare).

Né, a ben vedere, la soluzione offerta dalla proposta Casellati supererebbe davvero il trasformismo parlamentare. Il secondo Premier potrebbe, infatti, ben essere un parlamentare eletto con la maggioranza e poi passato in corso di legislatura nel gruppo misto o persino tra i banchi dell’opposizione, dato che la norma richiede solo che sia stato “candidato in collegamento con il presidente eletto”. Per non dire della assoluta, evidente inopportunità di “cristallizzare” l’indirizzo politico per l’intera legislatura, nonostante che esso sia per sua natura fluido e debba adattarsi a circostanze che, come abbiamo visto negli ultimi anni, possono anche essere davvero straordinarie.

Infine, ciò che non si è voluto capire negli ultimi trent’anni è che la “stabilità” del Governo è un falso problema, o comunque un problema mal posto. L’instabilità dei Governi italiani, infatti, dipende non già dalla mancanza di adeguati poteri in capo al Presidente del Consiglio di turno, ma dalla debolezza dei partiti e delle coalizioni che lo sostengono. Si confonde, in altre parole, l’effetto con la causa, dato che tutte le crisi di governo hanno avuto un’origine extraparlamentare. Se, dunque, le crisi di governo sono dipese esclusivamente da rotture tra i partiti di maggioranza è sul sistema dei partiti – ossia sulla questione istituzionale – che si dovrebbe, semmai, intervenire.

Il terzo argomento portato dai fautori della riforma costituzionale, ossia che la democrazia diretta riavvicinerebbe i cittadini alle istituzioni, ci interroga, invece, sulle ragioni della disaffezione verso la politica. Entra allora in gioco, di nuovo, la crisi della politica e dei partiti, che poco o nulla ha a che vedere con i dibattiti di natura costituzionale sulle forme di governo.

Il dato storico-statistico ci dice che il picco della partecipazione popolare si ebbe in questo Paese, per ragioni facilmente comprensibili, subito dopo la caduta del Fascismo, per poi scendere – lentamente, ma inesorabilmente – fino a raggiungere, negli ultimi anni, livelli francamente allarmanti. Sempre dai dati si evince anche che, contrariamente a quanto declamato dai “riformatori”, la disaffezione è decisamente aumentata nell’ultimo trentennio, nonostante (ma verrebbe da dire per effetto de) l’introduzione di leggi elettorali di segno maggioritario, dell’elezione diretta delle cariche amministrative e di altri stravolgimenti della nostra architettura costituzionale. Se ciò non prova necessariamente che la partecipazione sia più alta quando il sistema è più puramente parlamentare e la legge elettorale è di tipo proporzionale, certamente dimostra che non è vero il contrario e che, dunque, la disaffezione dalla politica non si cura con più massicce dosi di democrazia “diretta”. Non vi sono, insomma, dati empirici a supporto della tesi che l’elezione diretta del Premier “valorizzi il ruolo del corpo elettorale”. La democrazia vive di partecipazione e, dunque, della possibilità di incidere nei processi decisionali, e nelle candidature, dal basso. Essa ha avuto la massima adesione da parte dei cittadini attraverso i partiti, vale a dire strutture democratiche e popolari di discussione e decisione, in cui la coscienza politica si forma e si orienta, mentre registra scarso interesse quando le decisioni sono prese dall’alto, ed i cittadini sono messi di fronte a scelte semplificate e insoddisfacenti. Valga un esempio: se i coraggiosi amici centristi fossero chiamati a decidere tra due “Premier” come Giuseppe Conte e Matteo Salvini quanto forte sarebbe la tentazione di spendere la giornata al mare?

Il tasso di partecipazione dei cittadini alla politica, dunque, non dipende affatto dalla possibilità di eleggere direttamente un “Premier” scelto da organismi autoreferenziali nelle segrete stanze. Occorre, invece, disegnare una incisiva riforma dei partiti per via legislativa che li allinei alla funzione che l'articolo 49 della Costituzione assegna loro: consentire ai cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale. I partiti, poi, dovrebbe riacquistare un’effettiva capacità di rappresentanza sociale. E la rappresentanza è tanto più effettiva se la volontà dei cittadini non è alterata da leggi elettorali che tendono a pesare i voti anziché contarli.

Un’ultima osservazione sul premierato elettivo riguarda l’impatto che esso avrebbe sulla Presidenza della Repubblica e sul suo ruolo di garanzia. A fronte del tentativo della maggioranza di negare che dalla proposta Casellati discenderebbe una compressione del ruolo del Presidente della Repubblica, Matteo Renzi, che pure non è contrario alla riforma Casellati (ne rivendica, anzi, la natura derivativa dalla sua proposta) e che non si sottrae mai alle discussioni urticanti, ha invece riconosciuto che si tratterebbe di un cambiamento profondo, eppure necessitato dallo spirito dei tempi. Su questo ritengo, tuttavia, che un supplemento di riflessione sarebbe opportuno. Negli ultimi trent’anni, in cui la crisi politico-istituzionale – e con essa quella sociale ed economica – si è approfondita, il Presidente della Repubblica non ha soltanto assunto un ruolo di crescente protagonismo nelle crisi di governo, ma ha anche rappresentato, fisicamente e istituzionalmente, l’unità nazionale in momenti di grande conflittualità. In anni in cui il sistema politico italiano accentua la spinta centrifuga e sembrano riaffiorare gli “opposti estremismi”, delegittimare e depotenziare il solo organo costituzionale che rappresenta l’unità del Paese pare una scelta non troppo lungimirante.