1. Quali sono le richieste del sindacato e dei docenti, che quotidianamente vivono la scuola, al nuovo Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina? Come sarà possibile reperire le risorse economiche utili per far fronte ai bisogni della scuola e dei docenti?
Dare finalmente alla scuola, e al lavoro nella scuola, l’attenzione e l’importanza che meritano, con una politica di forti investimenti che avvicini il nostro paese all’Europa sia in termini di volume di spesa per istruzione, formazione e ricerca, sia in termini di retribuzioni del personale. Sostenere con determinazione questo obiettivo è la richiesta che facciamo anche alla ministra Azzolina, come a chi l’ha preceduta, a nome e per conto di un mondo della scuola di cui siamo il sindacato più rappresentativo. Sappiamo bene che l’obiettivo è di grande impegno e che non può essere conseguito in un breve lasso di tempo; il punto di PIL che vorremmo fosse destinato alla scuola equivale a 16 miliardi, serve un piano pluriennale per arrivare al traguardo ma occorre partire subito, senza indugi e con una chiara direzione di marcia. È un impegno che chiama in causa ovviamente Governo e Parlamento, a chi guida il dicastero dell’Istruzione spetta esercitare un ruolo di garanzia e di stimolo. Un serio, coerente e puntuale impegno in quella direzione è anche la premessa per un significativo incremento delle retribuzioni del personale, condizione necessaria anche per restituire al lavoro nella scuola prestigio e considerazione sociale.
2. Quali sono al momento le divergenze tra il Ministero dell’Istruzione e i sindacati?
La rottura che si è determinata nei giorni scorsi, legata anche al mancato avvio del confronto sul rinnovo del contratto, investe principalmente un tema di particolare urgenza per il sistema, quello del reclutamento e del precariato, oggetto di un lungo confronto avviato già col Governo precedente e proseguito con quello attuale. Già il 24 aprile del 2019, infatti, sottoscrivemmo un’intesa - direttamente firmata dall’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte - nella quale si indicava, fra l’altro, l’obiettivo prioritario di una stabilizzazione del lavoro precario, cui si fa ricorso in misura abnorme, anche attraverso modalità di reclutamento che riconoscessero il valore dell’esperienza di lavoro maturata da chi, lavorando per anni con contratti precari, mette le nostre scuole in condizione di funzionare regolarmente. Da quell’intesa e da quelle successive, l’ultima delle quali firmata il 1° ottobre dall’ex ministro Fioramonti, è scaturito il decreto legge 126/2019, convertito in legge a fine dicembre, che sia pure dopo mille sofferte mediazioni metteva in pista concorsi riservati al personale con almeno tre anni di lavoro precario. Assumendo l’incarico di ministra, dopo essere stata fino a quel momento sottosegretaria del MIUR, l’on. Azzolina ha impresso alla vicenda una svolta che molti (e lei stessa) vorrebbero definire “meritocratica”, lontana e di fatto divergente rispetto alle intese che ho richiamato, accentuando oltre ogni logica la selettività di prove concorsuali che in origine erano state ben diversamente concepite. È una meritocrazia malintesa, vorrei dire “di facciata”, quella che spaccia per garanzia di qualità professionale il superamento di una batteria di quesiti e un colloquio, rendendo del tutto residuale il peso e il valore di un lavoro svolto per più anni, dell’esperienza e della competenza in tal modo maturate. Dalla ministra Azzolina, proprio per la sua diretta provenienza dal mondo della scuola, ci attendevamo un approccio meno ideologico, più attento ad una realtà che dovrebbe ben conoscere. Oltre al tema dei concorsi riservati, c’è quello di uno sistema finalmente stabile e strutturale, dopo innumerevoli cambiamenti, di percorsi abilitanti aperti non solo ai neo laureati, ma anche al personale di ruolo che voglia acquisire nuove abilitazioni, e al personale che lavora da non abilitato nella scuola paritaria e nella formazione professionale. Doveva partire entro gennaio il tavolo di confronto per definire i contenuti di un apposito disegno di legge, non vi è stato il minimo segnale di attenzione e disponibilità in tal senso da parte della ministra. E non vale la scusa di essersi insediata da poche settimane: da sottosegretaria ha vissuto tutte le fasi del lungo confronto che ha prodotto le intese e, da ultimo, un verbale di conciliazione a fine dicembre che fissava precise scadenze, tutte regolarmente disattese. Quindi non ci sono alibi per un’inerzia che non vorremmo nascondesse, al di là delle dichiarazioni verbali, una scarsa disponibilità al pieno e corretto esercizio delle relazioni sindacali.
3. Il vincolo quinquennale è uno dei motivi principali del dissenso di sindacati e docenti nei confronti del Ministero. I numeri ci dicono che nella scuola lavorano attualmente 185.000 supplenti annuali o fino al termine delle lezioni. Alla luce di questi numeri, ha senso il vincolo quinquennale (ovvero l’obbligo di permanenza nella scuola di titolarità) per garantire la continuità didattica?
Anche questo è un esempio di come spesso si affrontino le questioni con interventi di facciata, risolutivi solo in apparenza dei problemi che andrebbero invece più opportunamente ed efficacemente trattati in sede contrattuale. Da sempre i contratti sulla mobilità contengono regole che incentivano e premiano la continuità di servizio sulla stessa scuola. Favorire la continuità didattica è senz’altro una giusta esigenza, la contrattazione è la sede opportuna in cui dare a quell’esigenza le necessarie risposte, ed è anche a nostro avviso la sede legittima, trattandosi di questioni che investono il rapporto di lavoro. Oltretutto l’esperienza insegna che le norme contrattuali si dimostrano meno esposte al contenzioso, spesso attivato con successo verso norme legislative considerate ingiuste. Se pensiamo, ad esempio, che il quinquennio azzera anche le tutele della legge 104, si rischia di essere facili profeti immaginando che possano essere ancora una volta i tribunali la sede di decisione su questioni che andrebbero risolte preventivamente da una politica più accorta e meno superficiale.
4. I docenti precari con almeno 3 annualità di servizio su sostegno chiedono di partecipare al concorso straordinario su sostegno. Sarà possibile riconoscere l’esperienza fatta sul campo per assicurare così l’inclusione scolastica e la continuità didattica agli alunni con disabilità?
Abbiamo rivolto proprio in queste ore, unitariamente, un appello al Presidente del Consiglio e alla Ministra Azzolina perché la questione dei precari con servizio su sostegno, come quella dei facenti funzione di DSGA, venga risolta con uno specifico emendamento al disegno di legge “milleproroghe”. Va detto, per chiarezza, che quel servizio va riconosciuto come requisito per partecipare ai concorsi riservati al personale con tre anni di precariato, ma per la classe di concorso di provenienza, non per i posti di sostegno, per i quali è indispensabile avere la specializzazione. Qui emerge un’altra questione da affrontare con la massima urgenza, quella dello scarso numero di specializzati, pur con situazioni molto diverse da territorio a territorio. La ministra ha annunciato con molta enfasi l’avvio del V ciclo dei PAS su sostegno, ma bastano due cifre a far comprendere come si sia ben lontani dalla soluzione dei problemi: meno di ventimila accessi ai PAS, più di ottantamila posti di sostegno oggi affidati a personale senza titolo di specializzazione. Forse è il caso di chiedersi se possa reggere un sistema che fa delle Università, nell’autonomia di decisione di cui dispongono, il soggetto deputato in via esclusiva a formare docenti specializzati. Forse vanno immaginate soluzioni diverse, nelle quali possa giocare un ruolo diverso lo stesso sistema scolastico. Nel frattempo andrebbe fatta chiarezza sui titoli conseguiti all'estero, acquisendo in via preventiva, e non solo con controlli successivi, le necessarie garanzie di qualità e congruità dei percorsi. Una cosa è certa: non possono certo essere i fattori di mercato, che condizionano inevitabilmente il sistema universitario, quelli decisivi per l’avvio di percorsi formativi; va comunque evitato il rischio che un'offerta carente in ambito nazionale alimenti un mercato incontrollato di titoli oltre confine. Non si tratterebbe solo di un paradosso, ma di qualcosa di più grave.
5. Anzianità, stress e burnout: gli insegnanti potrebbero essere collocati in pensione attorno ai 60 anni e con meno di 30 anni di contributi come avviene negli altri Paesi Europei?
La prima cosa da fare è togliere la scuola, e chi ci lavora, dalla condizione di isolamento e di solitudine in cui spesso si trova ad agire. Parafulmine di ogni emergenza e di ogni problema, dovrebbe trovare anzitutto nelle famiglie, e più in generale nel contesto sociale in cui opera, sostegno convinto e piena alleanza. Sappiamo che non sempre è così, i casi di aggressione di cui sono vittime docenti e dirigenti, per quanto oggettivamente limitati, sono la spia di atteggiamenti purtroppo diffusi di disinteresse, talvolta di ostilità, che incidono fortemente in termini di stress lavorativo. Difficile, per evidenti ragioni, sottrarre tutto il personale scolastico dagli effetti di dinamiche riguardanti in generale il sistema previdenziale, in una società nella quale per fortuna si vive di più, ma si procrea e si lavora di meno. Per questo è importante che almeno un settore, la scuola dell’infanzia, abbia visto riconoscere le condizioni di particolare gravosità per le quali è consentito lasciare il servizio in anticipo rispetto ai requisiti ordinari. Vale la pena percorrere anche altre vie, in sede contrattuale, per individuare per i docenti anche modalità diverse di prestare la propria attività, dovendosi mettere in conto una più lunga permanenza in servizio. Ruoli di supporto alla progettazione e alla verifica delle attività, di tutoraggio ai nuovi assunti, di coordinamento e di formazione, tanto per indicare alcune piste di riflessione.
6. Franca Falcucci, provenendo dalla Democrazia Cristiana, “prestata” dal mondo della scuola alla politica, si trovò ad affrontare il tema scottante del rinnovo dei programmi della scuola elementare a causa delle ingenti trasformazioni socio-culturali. Potrebbe avere senso fare una scelta del genere anche oggi?
Rispetto ai tempi della ministra Falcucci (allora molto contestata, oggi spesso rimpianta per competenza, serietà e generosità di impegno) sono cambiate molte cose, ed è soprattutto inconfrontabile rispetto ad allora la rapidità con cui si svolgono i processi di cambiamento. Tenere dietro alle trasformazioni di contesto esige oggi un’attitudine a vivere una condizione di cambiamento costante e molto veloce, l’autonomia delle istituzioni scolastiche – un’autonomia che non ha nulla di anarchico perché elemento di un sistema unitario e coordinato - è forse la dimensione in questo senso più opportuna e più rispondente alle necessità nella situazione che stiamo vivendo. Un’autonomia che va sostenuta da un’azione efficace di governo, e da politiche di investimento che ho già indicato come indispensabili in apertura di questa intervista.
7. La condizione femminile oggi: cosa è cambiato dai primi momenti di emancipazione femminile al mondo contemporaneo nella società e sul lavoro?
L’emancipazione delle donne, nella società e nel lavoro, ha fatto passi da gigante, anche se l’effettiva parità di genere resta tuttora un traguardo non pienamente raggiunto, dunque un obiettivo cui dobbiamo continuare a tendere con la massima determinazione. I passi da gigante non sono del resto venuti per caso, ma sono frutto di un impegno che ha sempre visto in prima linea, fra gli altri, i soggetti della rappresentanza sociale, come i sindacati. Può essere considerato normale che sia una donna a guidare, come nel mio caso, la più grande organizzazione di un mondo del lavoro a forte presenza femminile come la scuola. Ma a me piace sottolineare come al vertice della mia confederazione, la CISL, ci sia oggi una donna, Annamaria Furlan; è avvenuto anche per la CGIL, con Susanna Camusso, mentre al ministero dell’istruzione la Azzolina è solo l’ultima di una serie di presenze femminili di rilievo. Oltre alla già citata Falcucci, e alla Jervolino che fu ministra negli anni novanta, negli ultimi vent’anni è stata affidata a donne, sei volte su dieci, la carica di ministro dell’istruzione. Basta questo perché le cose vadano meglio? Certamente no, non è certo in base al genere che si misura il gradimento per ciò che un ministro o un governo hanno fatto e fanno per la scuola, tant’è vero che nelle tensioni attualmente in atto la nostra interlocutrice è una ministra donna. In fondo, anche questo può essere letto come segno di parità riconosciuta e affermata nei fatti.
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