fonte: giornale Dinamopress
Gli Assistenti Educativi Culturali di Roma (Aec) sono in lotta da mesi per il loro riconoscimento e per garantire la qualità del servizio nelle scuole. Un breve riassunto e lo stato attuale della situazione.
Cominciamo
dall’inizio: chi sono gli AEC? A chi, per qualsivoglia motivo,
abbia a che fare con il mondo della scuola, la sigla non dovrebbe
risultare nuova; per tutti gli altri invece facilmente suonerà
enigmatica.
L’Assistente
Educativo Culturale (o OEPA, come da nuovo acronimo di Operatore
Educativo Per l’Autonomia) è una figura esistente ormai da decenni
nelle scuole di tutta Italia (anche se la denominazione varia di
regione in regione) e si occupa di favorire l’inclusione scolastica
e l’autonomia degli studenti con disabilità.
Se
nel discorso pubblico la loro esistenza è stata fino a poco tempo fa
totalmente misconosciuta, all’interno del sistema scolastico questi
lavoratori costituiscono invece delle vere e proprie colonne
portanti. Oltre a garantire l’effettività del diritto
all’istruzione dei bambini con disabilità, l’Assistente
Educativo rappresenta per loro il più importante punto di
riferimento, essendo la figura scolastica con cui spesso trascorrono
il maggior numero di ore e con la quale, per diversi motivi,
instaurano un rapporto più ravvicinato e in qualche modo
“confidenziale”: per dirlo con le parole di una lavoratrice, gli
AEC sono coloro che «sono abituati a guardare il mondo dall’altezza
degli occhi dei loro bambini».
LA FUNZIONE EDUCATIVA
Il
nuovo regolamento adottato nel 2017 dal Comune di Roma (che riguarda
circa 2500 lavoratori e in base al quale è stato reso obbligatorio
uno specifico corso di formazione, spesso a carico del lavoratore
stesso) attribuisce agli AEC una funzione educativa, di mediazione
comunicazionale, per la quale sono necessari elementi e competenze
basilari di psicologia. Risiede qui la prima grande anomalia: perché,
seppure gli Assistenti Educativi sono spesso educatori o psicologi
laureati e a pieno titolo, queste competenze espressamente richieste
dal Regolamento non trovano però riscontro nel contratto nazionale
al quale la categoria afferisce. In parole povere gli Assistenti
Educativi svolgono un certo tipo di lavoro ma sono pagati secondo un
inquadramento contrattuale di almeno tre livelli inferiore a quello
che sarebbe adeguato.
UNA PRECARIETÀ STRUTTURALE
Questo
è però solo uno dei tanti motivi, e neanche il più importante, per
i quali i lavoratori hanno indetto lo sciopero. Il vulnus più grave
risiede infatti nella precarietà endemica e strutturale alla quale
sono sottoposti il servizio, il loro lavoro e, di conseguenza, le
loro esistenze.
Il
servizio di assistenza educativa è infatti concesso in appalto a
Cooperative sociali (che di sociale e mutualistico mantengono oramai
soltanto il nome) attraverso bandi di gara al massimo ribasso
economico, dalla cadenza più o meno biennale. Questo semplice ma
enorme fatto comporta tutta una serie di gravissime conseguenze: sono
innanzitutto minate alla base la qualità, l’efficacia e
l’efficienza dell’intervento educativo il quale, fondandosi
primariamente sulla continuità della relazione che si stabilisce tra
operatore e alunno, è reso invece frammentato, contingentato dai
continui cambi d’appalto ed estremamente faticoso per tutte le
parti in gioco. I lavoratori sono così costretti a migrare di anno
in anno da una cooperativa all’altra, ricominciando ogni volta il
lavoro da capo, trovandosi continuamente ad aver a che fare con nuovi
datori di lavoro e diverse condizioni lavorative, spostati come
pacchi postali all’interno di uno scacchiere caotico e pressoché
insensato.
Il lavoratore si trova inoltre a vivere una situazione paradossale: è un dipendente privato all’interno di una struttura pubblica (la scuola), un escluso la cui mansione è quella di favorire l’inclusione, un operatore il cui compito è prendersi cura, quando nella sua vita privata a malapena riesce a prendersi cura di se stesso.
Il lavoratore si trova inoltre a vivere una situazione paradossale: è un dipendente privato all’interno di una struttura pubblica (la scuola), un escluso la cui mansione è quella di favorire l’inclusione, un operatore il cui compito è prendersi cura, quando nella sua vita privata a malapena riesce a prendersi cura di se stesso.
Infatti,
oltre a ricevere una paga oraria già infima di per sé, l’AEC
viene rispedito a casa senza compenso giornaliero qualora l’alunno
in carico sia assente, non vede spesso riconosciuto il diritto alla
retribuzione dei primi tre giorni di malattia, non viene pagato
durante i molti giorni di chiusura della scuola (parliamo di scioperi
di insegnanti e/o personale Ata, chiusure straordinarie per neve o
maltempo, ponti, festività e, dulcis in fundo, vacanze estive). In
pratica su 12 mesi l’AEC riceve lo stipendio, in media, per soli
8/9 mesi l’anno, costretto nel tempo restante a trovare espedienti
per sopravvivere.
Oltre
il danno, però, c’è la beffa: per effetto di leggi perverse,
durante i mesi estivi il contratto di lavoro con la cooperativa
risulta ancora in essere, è “solamente” sospeso, motivo per il
quale il lavoratore, anche se di fatto disoccupato, non può accedere
alle misure previste dal welfare, né tanto meno cercare un altro
lavoro.
Se già a questo punto vi sembra di essere finiti alla fiera dell’ingiustizia e dell’insensatezza, tenetevi forte, perché non abbiamo ancora finito. Solo una percentuale irrisoria di Aec ottiene dalle cooperative contratti full time: la stragrande maggioranza lavora per un massimo di 20-25 ore a settimana e risulta impossibile per loro portare avanti un altro lavoro in maniera stabile, poiché i turni sono spesso dislocati in mezzo alla giornata, essendo molto richiesta da parte delle scuole la copertura delle ore centrali e pomeridiane.
Se già a questo punto vi sembra di essere finiti alla fiera dell’ingiustizia e dell’insensatezza, tenetevi forte, perché non abbiamo ancora finito. Solo una percentuale irrisoria di Aec ottiene dalle cooperative contratti full time: la stragrande maggioranza lavora per un massimo di 20-25 ore a settimana e risulta impossibile per loro portare avanti un altro lavoro in maniera stabile, poiché i turni sono spesso dislocati in mezzo alla giornata, essendo molto richiesta da parte delle scuole la copertura delle ore centrali e pomeridiane.
A
volte l’operatore può trovarsi a dover sostenere una giornata
lavorativa di 8 ore senza che gli sia riconosciuto il diritto al
pasto. Nelle mense scolastiche non è infatti previsto il vitto per
gli AEC, tanto meno le cooperative erogano i buoni pasto, pertanto si
può facilmente arrivare al paradosso per il quale l’operatore
debba presenziare a mensa per assistere il bambino, dunque sedersi al
tavolo con la classe, ma non possa nutrirsi egli stesso!
Accenniamo
poi rapidamente (non certo perché irrilevanti) alle mansioni
improprie che regolarmente vengono richieste agli AEC (assistenza
igienica, somministrazione di medicinali, sorveglianza della classe,
ecc.) da scuole e insegnanti. Il rischio di burnout dopo appena
qualche mese di lavoro è insomma dietro l’angolo. L’elenco delle
assurdità e illegalità con le quali si trova ogni giorno a
confronto un AEC potrebbe continuare ancora a lungo, ma per ora ci
fermiamo qui. Perché c’è anche un’altra storia altrettanto
importante da raccontare.
LA BATTAGLIA DEL COMITATO ROMANO
Stanchi
di sopportare in silenzio tali umilianti condizioni di lavoro, alcuni
lavoratori si sono infatti autonomamente organizzati in un Comitato,
nel quale confrontarsi, costruire solidarietà e soprattutto forme di
lotta per uscire dalla condizione di sfruttamento e precarietà. Il
frutto più importante del lavoro del Comitato Romano AEC consiste in
una Delibera di iniziativa popolare presentata quasi sei mesi or sono
al Consiglio comunale capitolino, per la quale sono state raccolte
ben 12mila firme, più del doppio di quelle necessarie per legge alla
proposta di una Delibera.
La
Delibera in questione, a fronte di una situazione tanto
ingarbugliata, è in realtà semplice, non perché retorica o
simbolica, ma in quanto individua una sola soluzione possibile,
concreta e radicale, all’ingiustizia strutturale sulla quale si
regge il sistema: l’internalizzazione nell’Amministrazione
capitolina del servizio di Assistenza Educativa.
LE RISPOSTE AI DETRATTORI
Chi
contesta la pretenziosità di un simile obiettivo, in tempi nei quali
la risposta “non ci sono coperture sufficienti” è una sorta di
ossessivo mantra, può ben trovare ai suoi dubbi risposte semplici
quanto incontrovertibili: innanzitutto le 12mila firme raccolte in
pochi mesi, testimonianza di un disagio estremo e diffuso che non può
rimanere inascoltato.
Entrando
poi nel merito della questione delle coperture finanziarie, il
Comitato ha messo davanti agli occhi dei detrattori le cifre spese
dall’Amministrazione capitolina per il finanziamento del servizio
in appalto: se il Comune eroga per il servizio circa 20 euro l’ora,
di questi solo 7 entrano direttamente nelle tasche del lavoratore,
gli altri si perdono nelle maglie e nei meccanismi oscuri di una
burocrazia e di strutture che producono sprechi e inefficienze.
Calcolando anche le enormi cifre spese per approntare i bandi di
gara, l’internalizzazione, lungi dal prevedere una spesa
insostenibile per l’Amministrazione, sarebbe invece l’occasione
per una riduzione degli sprechi, un miglioramento dell’efficienza,
una razionalizzazione della gestione delle risorse e, probabilmente,
perfino un risparmio di denaro. Siamo di fronte alla dimostrazione
pratica che l’assioma ideologico neoliberista “privato è meglio”
non si traduce automaticamente in verità di fatto.
Esiste
infine un’ineludibile questione politica: il servizio che
garantisce il diritto allo studio degli alunni con disabilità e
svantaggio sociale non può essere affidato a strutture private che
lavorano spesso senza alcuna conoscenza del campo e del territorio e
gestiscono le risorse in maniera burocratica e aziendalistica. I
diritti dei lavoratori e degli utenti di un servizio fondamentale
come l’assistenza educativa non possono essere mercificati e
vincolati a mere logiche concorrenziali e economicistiche. Essi
devono essere riconosciuti come elementi fondanti di una società
giusta e inclusiva, nonché come preziosa risorsa per l’arricchimento
complessivo della comunità cittadina e statale.
MUNICIPI FAVOREVOLI, COMUNE LATITANTE
A
concreta testimonianza di ciò stanno i voti espressi dai Consigli
municipali di Roma, gli enti effettivamente più prossimi alle realtà
territoriali ove si svolge il lavoro quotidiano, dunque quelli che
meglio conoscono le reali esigenze del servizio: su cinque Municipi
(il III, il V, l’VIII, il XII e il XIV) che finora si sono
espressi, tutti hanno approvato all’unanimità una mozione di
sostegno alla Delibera di iniziativa popolare.
Il
Comune, di fronte a una tale mole di fatti, sembra però essersi
trincerato in se stesso e continua a fare orecchie da mercante: i sei
mesi di tempo che aveva per esprimersi sulla proposta sono agli
sgoccioli. Ma gli AEC sono stanchi di restare isolati e in silenzio e
hanno deciso di prendere in mano il loro destino mettendo il Comune
con le spalle al muro: il 13 dicembre 2019
è stato
il termine ultimo possibile per votare, per chiarire insomma la
posizione di Assessori e Amministrazione in merito ai diritti degli
alunni con disabilità e dei lavoratori dell’assistenza
scolastica.
Per questo giovedì 12 dicembre 2019, dopo aver comunicato tramite una lettera aperta le ragioni della loro protesta alle famiglie e averle invitate a unirsi a loro, gli AEC hanno disertato le aule in cui quotidianamente lavorano e si sono incontrati sotto il Campidoglio per pretendere una volta per tutte ciò che non può più essere rinviato: qualità del servizio, diritti lavorativi e internalizzazione. In una parola: dignità.
Per questo giovedì 12 dicembre 2019, dopo aver comunicato tramite una lettera aperta le ragioni della loro protesta alle famiglie e averle invitate a unirsi a loro, gli AEC hanno disertato le aule in cui quotidianamente lavorano e si sono incontrati sotto il Campidoglio per pretendere una volta per tutte ciò che non può più essere rinviato: qualità del servizio, diritti lavorativi e internalizzazione. In una parola: dignità.
Le
prime e confortanti buone notizie arrivano già il
giorno prima della protesta, l’11 dicembre 2019,
quando
il
Comune di Roma convoca
il Comitato
e una delegazione si siede, finalmente, a un tavolo con gli assessori
Mammì, Persona, Scuola e Comunità solidale, e De Santis, Personale.
Dicono
che sono d’accordo , che la gestione dei servizi pubblici
essenziali deve essere gestita dal pubblico, e che l’appalto a
privati non corrisponde alle esigenze di un servizio efficace ed
efficiente.
E
propongono un’alternativa alla creazione dell’ente speciale
previsto dalla delibera di iniziativa popolare: la riapertura della
figura già esistente all’interno della pianta organica del Comune,
e cioè quella dell’assistente educativo comunale.
È
con questa premessa che si arriva alla giornata del 12 dicembre
2019. Con la piazza del Campidoglio che si riempie poco a poco e
che si colora degli ombrelli rossi che gli Aec hanno scelto come
simbolo e di decine di cartelloni colorati e fantasiosi. Alla
fine sono in centinaia a riempire la scalinata dell’Arce
capitolina.
Le storie di ognuno si susseguono, nella narrazione della piazza, tutte diverse e tutte uguali, con qualche genitore che è lì, a testimoniare che i loro diritti garantiscono i diritti dei bambini con cui lavorano.
Le storie di ognuno si susseguono, nella narrazione della piazza, tutte diverse e tutte uguali, con qualche genitore che è lì, a testimoniare che i loro diritti garantiscono i diritti dei bambini con cui lavorano.
Il
bilancio della giornata ci dirà che almeno 600 persone erano in
piazza per i loro diritti e più del doppio non si è recata sul
posto di lavoro. Il terzo passaggio avviene il 22 gennaio 2020,
nel secondo tavolo tecnico, in cui emerge la questione della delibera
firmata dall’allora sindaco Alemanno che , senza alcuna
motivazione, mette la figura dell’assistente educativo comunale in
esaurimento.
Il
12 febbraio 2020, al Campidoglio, si sono svolti due tavoli tecnici
consecutivi: nel primo, vengono convocati dall’assessore De
Santis i sindacati Cgil, Cisl, Uil, Csa. Si scopre così che anche
loro sono favorevoli all’internalizzazione ma pongono mille
ostacoli burocratici.
A
seguire, c’è
stato un tavolo
tecnico con la delegazione del comitato e
l’assessore
De Santis è stato
concorde con il
Comitato
che bisogna accelerare i tempi, per cui si propone un incontro a
stretto giro per affrontare le questioni tecnico-amministrative e
legali che il processo di riapertura della figura richiede e stilare
una bozza di Delibera da far discutere al più presto al Consiglio
Comunale. Speriamo
dunque che alle molte parole possano seguire i fatti.