di Salvatore Colletti
Il nove maggio di quarantasei anni fa, in via Michelangelo Caetani, all’interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa, venne ritrovato il corpo di uno dei più prestigiosi leader della Democrazia cristiana.
Nel corso di questi anni, la figura di Aldo Moro è stata un po’ “relegata” al «caso Moro». Se la speranza di sapere un giorno cosa sia effettivamente accaduto durante quei cinquantacinque giorni, deve continuare a guidarci, allo stesso modo, penso e condivido le parole del prof. Renato Moro, il quale ha affermato che non si possono ridurre quasi 62 anni di vita in un racconto legato agli ultimi 55 giorni. Dunque se «si vuole davvero onorarne la memoria e farne conoscere il profilo agli italiani» occorre «“liberare” Moro dal carcere brigatista, […] e occuparsi di lui come politico – naturalmente – ma anche come intellettuale, come giurista, come cristiano, come uomo».
Il pensiero moroteo è molto difficile analizzarlo tout court; il rischio è quello di interpretarlo in modo banale. In questo contesto, mi limito ad affrontare due visioni che hanno orientato gran parte della sua azione politica: la centralità della persona, nella sua inviolabilità, inoggettivabilità, responsabilità, e la realizzazione della «democrazia compiuta», concepibile soltanto parallelamente al precedente principio, in quanto per Moro, il concetto di democrazia non fu «soltanto espressione di libera iniziativa [...] ma anche approfondimento della dignità umana nel suo pieno significato, nelle sue integrali aspirazioni ed esigenze».
La centralità della persona non ha caratterizzato soltanto l’impegno politico di Moro, ma anche – e soprattutto – quello accademico, rendendolo un vero e coerente democratico cristiano. Una visione maturata durante il percorso universitario, favorita dall’amicizia con monsignor Giovanni Battista Montini – futuro Papa Paolo VI –, legata alle posizioni filosofiche del personalismo comunitario di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier; concezione, totalmente opposta al pensiero filosofico politico hegeliano diffuso dal regime fascista, che esalta – appunto – il valore della persona umana: «lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato».
Moro, già a partire dall’elezione in Assemblea costituente, cercò di fare in modo che la centralità della persona non rimanesse un astratto principio ma diventasse uno dei cardini del nuovo Stato da costruire. Questo suo contributo è stato propiziato dall’essere membro della «Commissione dei 75», con il compito di redigere il nuovo testo costituzionale, dove insieme ad altri giovani docenti universitari – Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti – ha fatto convergere tutte le forze politiche su questo concetto. Un suo intervento nella seduta del 13 marzo 1947, dedicata alla discussione delle disposizioni generali del progetto di Costituzione, rappresenta una delle testimonianze concrete di quanto fosse centrale la persona nel nuovo ordinamento. Il dibattito riguardò i primi tre articoli della Carta costituzionale, ritenuti da Moro «la chiave di volta della nostra Costituzione, il criterio fondamentale di interpretazione di essa», i cui principi rappresentano i «tre pilastri» dello Stato: «La democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso – che Moro definì – largamente umano».
Lo Statista è stato, fin dall’inizio dei lavori in Commissione, favorevole al riconoscimento della centralità del lavoro, voluto fortemente da La Pira. Durante il confronto che si creò tra il gruppo comunista e quello democristiano, dal momento che l’onorevole Togliatti voleva qualificare l’Italia come «Repubblica di lavoratori», Moro fu uno dei mediatori che elaborò, trovando anche il consenso del gruppo comunista, il primo comma dell’art. 1, sostenendo che la definizione di Togliatti «avrebbe assunto fatalmente un significato classista». Nella formulazione del secondo comma, asserì di essere molto favorevole a puntualizzare che la sovranità è esercitata «nelle forme e nei limiti della Costituzione»; ritenne necessaria «un’indicazione di questo genere, la quale servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità dello Stato è la sovranità dell’ordinamento giuridico». E aggiunse che «non è il potere dello Stato un potere o un prepotere, di fatto è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito dell’ordinamento giuridico formato appunto dalla Costituzione». Un limite che, alla luce dell’esperienza pre-repubblicana, servisse a tutelare i diritti, le libertà, la dignità della persona, anche dallo Stato, ed essere una garanzia contro la possibilità di un nuovo potere assoluto, anche se legittimato dal voto popolare.
Non a caso, l’articolo seguente, il secondo delinea il volto del nuovo Stato, basato sulla centralità della persona, sul rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sul pluralismo democratico, sul valore della solidarietà. Proprio per questo, è l’articolo che meglio rappresenta l’idea di Stato che Moro ebbe. Egli stesso affermò che con questo articolo si viene a delineare il volto dello Stato in «senso largamente umano». E precisò: «Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità».
Infine, nell’affrontare il terzo articolo, specificò che, con tale norma si trattava «di realizzare il più possibile l’eguale dignità di tutti gli uomini». E continuò: «Non accontentiamoci di parole, di dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che il più possibile siano di fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini».
Dopo la Costituente, Moro è stato ininterrottamente deputato dalla I legislatura. Nel 1948 fu nominato sottosegretario al Ministero degli affari esteri e negli anni successivi ricoprì anche altri prestigiosi incarichi: fu eletto presidente del gruppo parlamentare democristiano, nominato ministro di grazia e giustizia e poi ministro della pubblica istruzione.
Furono questi gli anni in cui avvertì sempre più la necessità di allargare la base popolare dello Stato, di coinvolgere forze politiche escluse – in quegli anni – da ogni esperienza governativa, per realizzare la vera «democrazia in senso politico». Affinché questo obiettivo si potesse realizzare, era necessario superare la distinzione tra partiti “costretti a governare” e partiti “costretti a stare all’opposizione”. Non potevano più esserci masse popolari escluse dalla vita politica dello Stato.
Dopo la presa di posizione dei socialisti sull’invasione sovietica in Ungheria e, con gli anni, l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia dal Partito comunista, Moro è stato tra coloro che vide nel Partito socialista un interlocutore che, procedendo per fasi, poteva iniziare a essere coinvolto in delle responsabilità di governo. L’apertura al dialogo con il Psi fu propiziata dalla sua elezione, nel 1959, alla segreteria della Democrazia cristiana; proprio in qualità di segretario politico, nella relazione al VII Congresso nazionale della Dc, pose in modo perentorio il problema dell’inserimento delle masse popolari nella vita dello Stato: «Nessuna persona ai margini, nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale». Dunque «la conciliazione delle masse con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti». Il cambiamento dei socialisti rispetto al passato non fu riconosciuto da tutti, di conseguenza fu chiamato a rassicurare colleghi di partito, elettori, ambienti scettici. Gli scontri, in diverse parti d’Italia, che si sono verificati durante la breve fase del governo Tambroni, confermeranno l’esigenza di una collaborazione con altre forze politiche.
L’inizio dell’apertura al Partito socialista si ebbe con la formazione del terzo governo Fanfani, noto come «il governo delle convergenze parallele», un monocolore Dc con l’appoggio esterno del Pli, Pri e Psdi, e con l’astensione dei socialisti. Il dialogo si rafforzò con le elezioni amministrative del 1960, con numerose giunte comunali che comprenderanno sia democristiani che socialisti; fu attraverso queste collaborazioni a livello locale che è stato possibile successivamente estenderle anche a livello nazionale. Soltanto dopo le decisioni maturate durante l’ottavo Congresso nazionale della Dc a Napoli, divenuto famoso per il lungo intervento di sei ore di Moro, si poté dare vita a una nuova fase, quella del «centro-sinistra programmatico», con l’appoggio esterno da parte dei socialisti, che portò al raggiungimento di importanti riforme: l’istituzione dell’Ente per l’energia elettrica e la nascita della scuola media unica. Durante la quarta legislatura, dopo il breve periodo della guida dell’esecutivo affidata a Giovanni Leone, Moro ricevette l’incarico di formare il suo primo governo. E così l’artefice, lo stratega, «il maestro sottile di metodica pazienza», il 5 dicembre 1963 giurò al Quirinale, dando vita al «centro-sinistra organico», per formare un governo con repubblicani, socialdemocratici, e con la partecipazione diretta del Partito socialista, portando a compimento quel difficile percorso iniziato tre anni prima. I risultati da perseguire da quell’esperienza furono illustrati da Moro alla Camera dei deputati nelle dichiarazioni programmatiche del suo primo esecutivo: «Dare più vasta base di consenso e perciò maggiore solidità allo Stato democratico, [...] favorire quel processo di sviluppo per il quale, nell’ordine democratico, sempre più vaste masse di popolo sono protagoniste della nostra storia ed effettivamente e largamente i cittadini godono dei diritti umani, civili ed economico-sociali che la Costituzione repubblicana garantisce».
Alla fine degli anni sessanta il centro-sinistra iniziò a entrare in crisi, a cui si affiancò un diffuso desiderio di cambiamento nella società. Lo Statista di Maglie fu tra coloro che più di tutti capì quegli anni, che quella irrequietezza diffusa tra la gente non era altro che il frutto di un profondo desiderio di miglioramento. Lo testimonia uno dei suoi più famosi interventi, in occasione del Consiglio nazionale Dc del 1968: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità».
Nel pensare la «terza fase», Moro comprese che nei confronti del maggior partito di opposizione fosse necessario «un atteggiamento chiaro, serio, costruttivo [...], riservando ad esso [...] una doverosa attenzione e conversazione». L’inizio della VII legislatura, anche alla luce del sempre minore distacco tra i due grandi partiti, vide il concepimento della solidarietà nazionale, con l’astensione del Partito comunista al terzo governo Andreotti. L’inclinazione al dialogo, alla mediazione dello Statista, diventò ancora più esplicita alla vigilia di un rimpasto che avrebbe consentito al Partito comunista di votare la fiducia al governo: «Abbiamo cercato di adattare e di approfondire questa linea di contatto reciprocamente istruttivo, sulla base non di un urto polemico quotidiano, com’era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un certo spirito costruttivo per ricercare se tra queste forze, in particolare tra queste due forze antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza».
Tuttavia, la nuova esperienza intrapresa si interruppe il 16 marzo 1978, con la strage di via Fani e il rapimento di Moro, mettendo fine all’ambizioso tentativo di sblocco della democrazia italiana.
Guardare oggi alla figura di Aldo Moro significa interessarsi a un diverso modo di fare politica, e il politico. Penso sia stato tra coloro che hanno concepito la politica come un sublime servizio fatto all’uomo. La sua peculiarità è stata la flessibilità, ma soprattutto, alla luce delle profonde divisioni che caratterizzavano il Paese, la capacità di dialogo e di confronto, riservata – soprattutto – a coloro che avevano delle idee diverse dalle sue.
Inevitabile non menzionare, alla luce delle precarie condizioni delle nostre strutture carcerarie, l’interesse e le preoccupazioni di Moro nei confronti dei detenuti. Lo testimoniano le sue visite nelle carceri, sia da ministro della giustizia, ma anche in qualità di professore di Istituzioni di diritto e procedura penale, ritenendo che fosse fondamentale per gli studenti, che affrontano degli studi giuridici, conoscere le condizioni, le sofferenze, di quella gente; forse per ricordare che rimangono, anche se in una condizione di libertà limitata, delle persone. Probabilmente è stata questa sua attenzione che meglio sintetizza quanto fosse importante per Moro il valore della persona umana.
Concludo menzionando un ulteriore estratto dei discorsi di Moro, a cui mi sono ispirato nel dare il titolo: «Il domani non appartiene ai conservatori e ai tiranni, ma appartiene agli innovatori attenti, seri, senza retorica». Delle qualità che certamente hanno caratterizzato la sua personalità e ci indicano un esemplare impegno politico a cui ispirarsi.