di Giovanni Battista Bruno
Gli amici di ForumalCentro mi hanno chiesto di scrivere in tema di premierato. E di farlo con lo sguardo del giurista, piuttosto che dalla prospettiva del tifoso. Anche in questa legislatura, infatti, si sta celebrando il rito, ormai trentennale, delle cosiddette riforme. È dunque il turno della “proposta Casellati”, che, come altre che l’hanno preceduta, viene presentata dai suoi fautori come lo “snake oil” capace di guarire ogni male della politica italiana, e dai suoi oppositori come l’anticamera dell’autocrazia.
Per mettere in prospettiva le questioni di fondo, sarebbe necessario inquadrare la proposta anzidetta nell’alveo delle altre, realizzate o tentate, nell’ultimo trentennio. A partire, dunque, dalla “madre di tutte le sciagure”, come ebbi modo di definire, in altro luogo ed in altro tempo, l’iniziativa referendaria di Mariotto Segni contro la legge elettorale proporzionale, finalizzata a favorire un “bipolarismo anglosassone” che esisteva solo nelle fantasie del comitato referendario. Tali iniziative muovono tutte, infatti, dall’errata prospettiva di rispondere ai problemi del sistema politico italiano, che sono di tipo istituzionale – e si riassumono essenzialmente nella crisi del modello partitico – con alchimie di tipo costituzionale. Una simile analisi, tuttavia, richiederebbe un saggio, sicché nella presente sede ci si concentrerà – seppure con il caveat di cui sopra – solo sull’ultima proposta di riforma: il cosiddetto premierato elettivo.
In via di approssimazione si può dire che la democrazia moderna si esplica principalmente attraverso due sistemi: quello parlamentare e quello presidenziale. Nel primo – il cui epigono è il sistema britannico – l’elettorato attivo elegge il Parlamento, che è il cuore della sovranità popolare, e quest’ultimo, tramite il meccanismo della “fiducia”, assegna la funzione esecutiva ad un governo (tipicamente, ma non necessariamente, formato da parlamentari “di maggioranza”). I provvedimenti del Governo devono essere approvati dal Parlamento e la fiducia può essere revocata, ed il governo sostituito, dalla maggioranza parlamentare. Nel secondo – il cui modello più riuscito è senz’altro il presidenzialismo americano – gli elettori eleggono, in tempi diversi, tanto il Parlamento – a cui è affidata solamente la funzione legislativa – quanto il capo del governo (il Presidente degli Stati Uniti), a cui spetta solo quella esecutiva. Il sistema è dunque a due cuori, se così si può dire, e si regge su un articolato meccanismo politico-istituzionale di pesi e contrappesi (checks and balances) che garantiscono l’indipendenza dell’azione governativa da quella legislativa e viceversa.
Il premierato – che ha conosciuto storicamente una sola, infelicissima, incarnazione in Israele – è, invece, un ibrido. Il Capo del Governo è eletto direttamente dal corpo elettorale (come in un sistema presidenziale), ma simultaneamente al Parlamento, da cui deve ricevere la fiducia (come in un sistema parlamentare). La fiducia, però, non può essere revocata (o, come prevede la proposta Casellati, può esserlo solo una volta, e a determinate condizioni), pena lo scioglimento contestuale delle Camere. La fiducia risulta, dunque, un passaggio pleonastico e la funzione di controllo del Parlamento è minata in radice dal ricatto che regge il suo rapporto con il Premier e che potremmo riassumere nella formula “se mi cacci vai a casa anche tu”. Sappiamo bene, infatti, quanto i parlamentari siano restii ad accorciare le legislature.
Il premierato raggiunge, dunque, il non facile obiettivo di violare tanto i principi del sistema parlamentare quanto quelli del sistema presidenziale, come aveva già spiegato vent’anni fa il Prof. Giovanni Sartori nell’articolo “Premierato Forte e Premierato Elettivo” (edito dalla Rivista Italiana di Scienza Politica, a. XXXIII, n. 2, agosto 2003), di cui consiglio la lettura a tutti coloro che sono interessati ad approfondire. Come già notava Sartori (non necessariamente un fautore del parlamentarismo o un difensore del proporzionalismo), con «premierato» si intende in effetti un sistema, né parlamentare né presidenziale, in cui il potere esecutivo “sovrasta il potere legislativo”, e in cui il governo domina sull’assemblea, pur avendone comunque bisogno per l’approvazione dei provvedimenti. Secondo i suoi fautori, da questo impianto deriverebbe un “governo forte”, e dunque efficace nella sua azione. Ciò risponderebbe all’esigenza di assicurare una democrazia “decidente” non paralizzata da veti incrociati e di riavvicinare alle istituzioni i cittadini, delusi dai “giochi di palazzo” che ne frusterebbero il voto. È davvero così? Mi pare il caso di indagare più a fondo.
Il primo assunto è che la “forza” del governo deriverebbe, da un lato, dall’investitura popolare del suo Capo e, dall’altro, dall’impossibilità sostanziale del Parlamento di rimuoverlo. L’investitura plebiscitaria e l’inamovibilità del Premier sarebbero, dunque, la garanzia dell’efficacia dell’azione di governo. C’è da chiedersi, però, se tale tesi sia fondata. A chi ritiene che il fallimento israeliano – dove l’esperimento del premierato fu cancellato dopo tre prove disastrose – sia insufficiente a condannare la formula, si può ricordare che un sistema assai simile vige nei grandi comuni, i cui Sindaci sono eletti direttamente dai cittadini contestualmente alle giunte e sono con esse in rapporto simul stabunt simul cadent (ossia, sono sostanzialmente inamovibili). L’esperienza ci insegna che dal combinato disposto di plebiscitarismo ed inamovibilità non discende affatto l’efficacia dell’azione amministrativa. Al contrario, abbiamo assistito a casi di conclamata incapacità del Sindaco a far funzionare la giunta (il riferimento a Virginia Raggi non è puramente casuale) che, proprio per l’effetto della inamovibilità del Primo Cittadino, hanno prodotto il protrarsi della paralisi amministrativa – ossia il contrario dell’efficacia amministrativa – per l’intera sindacatura. E Roma non è il solo caso. Se, dunque, molti concittadini hanno già sperimentato i guasti prodotti da un Sindaco incapace di governare, ma inamovibile, non è per nulla difficile immaginare quali disastri potrebbero causare al Paese cinque anni di paralisi dell’esecutivo, stretto nella morsa del duplice ricatto tra il Premier, che non può essere rimosso, e il Parlamento, che non può rimuoverlo, ma può impedirgli di governare. Per non dire che una cosa è amministrare (che è il compito dei Sindaci), altra è coordinare e decidere l’indirizzo politico generale, che è la funzione del Presidente del Consiglio.
È dunque dimostrato che il primo assunto è falso: l’inamovibilità del Primo Ministro non determina l’efficacia dell’azione di governo. In molti casi, anzi, produce una paralisi prolungata. Se, come diceva Sartori, il principale pregio del sistema parlamentare è la capacità di “autocurarsi” in corso d’opera, ed il principale pregio del sistema presidenziale è la presenza di un sistema di contrappesi senza co-gestione, il premierato fallisce sotto entrambi i profili.
Quanto, poi, al secondo punto portato dai fautori della riforma, ossia che favorirebbe la cosiddetta democrazia “decidente” contro il “trasformismo” parlamentare, se in tali argomenti si legge il riflesso dello storico cavallo di battaglia della destra italiana contro i ribaltoni parlamentari (e contro il Parlamento, in buona sostanza), non possono non notarsi anche significative incongruenze.
Si è detto che il premierato vorrebbe reggersi sul ricatto insito nella formula simul stabunt simul cadent (il prezzo della sfiducia al Premier è l’autoscioglimento delle Camere), corretto tuttavia dalla possibilità di sostituire il Premier, una sola volta, con altro candidato eletto con la medesima maggioranza. Ciò implica che il Premier eletto dal popolo sarebbe in verità sostituibile (entro certi limiti), mentre il vero Primo Ministro inamovibile sarebbe, a ben vedere, il “secondo”, ossia il Premier nominato dal Parlamento in sostituzione del Premier eletto. La successiva precisazione dei proponenti che l’incarico al secondo Premier potrebbe essere conferito solo in ipotesi di morte, dimissioni o impedimento permanente del primo non supera l’aporìa di un sistema che prevede lo scioglimento automatico delle Camere in caso, ad esempio, di dimissioni del secondo Premier (quello non eletto dal popolo), ma non necessariamente lo scioglimento delle Camere in caso di dimissioni del primo (quello munito di investitura popolare).
Né, a ben vedere, la soluzione offerta dalla proposta Casellati supererebbe davvero il trasformismo parlamentare. Il secondo Premier potrebbe, infatti, ben essere un parlamentare eletto con la maggioranza e poi passato in corso di legislatura nel gruppo misto o persino tra i banchi dell’opposizione, dato che la norma richiede solo che sia stato “candidato in collegamento con il presidente eletto”. Per non dire della assoluta, evidente inopportunità di “cristallizzare” l’indirizzo politico per l’intera legislatura, nonostante che esso sia per sua natura fluido e debba adattarsi a circostanze che, come abbiamo visto negli ultimi anni, possono anche essere davvero straordinarie.
Infine, ciò che non si è voluto capire negli ultimi trent’anni è che la “stabilità” del Governo è un falso problema, o comunque un problema mal posto. L’instabilità dei Governi italiani, infatti, dipende non già dalla mancanza di adeguati poteri in capo al Presidente del Consiglio di turno, ma dalla debolezza dei partiti e delle coalizioni che lo sostengono. Si confonde, in altre parole, l’effetto con la causa, dato che tutte le crisi di governo hanno avuto un’origine extraparlamentare. Se, dunque, le crisi di governo sono dipese esclusivamente da rotture tra i partiti di maggioranza è sul sistema dei partiti – ossia sulla questione istituzionale – che si dovrebbe, semmai, intervenire.
Il terzo argomento portato dai fautori della riforma costituzionale, ossia che la democrazia diretta riavvicinerebbe i cittadini alle istituzioni, ci interroga, invece, sulle ragioni della disaffezione verso la politica. Entra allora in gioco, di nuovo, la crisi della politica e dei partiti, che poco o nulla ha a che vedere con i dibattiti di natura costituzionale sulle forme di governo.
Il dato storico-statistico ci dice che il picco della partecipazione popolare si ebbe in questo Paese, per ragioni facilmente comprensibili, subito dopo la caduta del Fascismo, per poi scendere – lentamente, ma inesorabilmente – fino a raggiungere, negli ultimi anni, livelli francamente allarmanti. Sempre dai dati si evince anche che, contrariamente a quanto declamato dai “riformatori”, la disaffezione è decisamente aumentata nell’ultimo trentennio, nonostante (ma verrebbe da dire per effetto de) l’introduzione di leggi elettorali di segno maggioritario, dell’elezione diretta delle cariche amministrative e di altri stravolgimenti della nostra architettura costituzionale. Se ciò non prova necessariamente che la partecipazione sia più alta quando il sistema è più puramente parlamentare e la legge elettorale è di tipo proporzionale, certamente dimostra che non è vero il contrario e che, dunque, la disaffezione dalla politica non si cura con più massicce dosi di democrazia “diretta”. Non vi sono, insomma, dati empirici a supporto della tesi che l’elezione diretta del Premier “valorizzi il ruolo del corpo elettorale”. La democrazia vive di partecipazione e, dunque, della possibilità di incidere nei processi decisionali, e nelle candidature, dal basso. Essa ha avuto la massima adesione da parte dei cittadini attraverso i partiti, vale a dire strutture democratiche e popolari di discussione e decisione, in cui la coscienza politica si forma e si orienta, mentre registra scarso interesse quando le decisioni sono prese dall’alto, ed i cittadini sono messi di fronte a scelte semplificate e insoddisfacenti. Valga un esempio: se i coraggiosi amici centristi fossero chiamati a decidere tra due “Premier” come Giuseppe Conte e Matteo Salvini quanto forte sarebbe la tentazione di spendere la giornata al mare?
Il tasso di partecipazione dei cittadini alla politica, dunque, non dipende affatto dalla possibilità di eleggere direttamente un “Premier” scelto da organismi autoreferenziali nelle segrete stanze. Occorre, invece, disegnare una incisiva riforma dei partiti per via legislativa che li allinei alla funzione che l'articolo 49 della Costituzione assegna loro: consentire ai cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale. I partiti, poi, dovrebbe riacquistare un’effettiva capacità di rappresentanza sociale. E la rappresentanza è tanto più effettiva se la volontà dei cittadini non è alterata da leggi elettorali che tendono a pesare i voti anziché contarli.
Un’ultima osservazione sul premierato elettivo riguarda l’impatto che esso avrebbe sulla Presidenza della Repubblica e sul suo ruolo di garanzia. A fronte del tentativo della maggioranza di negare che dalla proposta Casellati discenderebbe una compressione del ruolo del Presidente della Repubblica, Matteo Renzi, che pure non è contrario alla riforma Casellati (ne rivendica, anzi, la natura derivativa dalla sua proposta) e che non si sottrae mai alle discussioni urticanti, ha invece riconosciuto che si tratterebbe di un cambiamento profondo, eppure necessitato dallo spirito dei tempi. Su questo ritengo, tuttavia, che un supplemento di riflessione sarebbe opportuno. Negli ultimi trent’anni, in cui la crisi politico-istituzionale – e con essa quella sociale ed economica – si è approfondita, il Presidente della Repubblica non ha soltanto assunto un ruolo di crescente protagonismo nelle crisi di governo, ma ha anche rappresentato, fisicamente e istituzionalmente, l’unità nazionale in momenti di grande conflittualità. In anni in cui il sistema politico italiano accentua la spinta centrifuga e sembrano riaffiorare gli “opposti estremismi”, delegittimare e depotenziare il solo organo costituzionale che rappresenta l’unità del Paese pare una scelta non troppo lungimirante.
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