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lunedì 31 agosto 2020

Aiutami a fare da solo #MariaMontessori #DonnealCentro

 di Valeria Frezza

Maria Montessori imposta tutta la sua attività nella consapevolezza che i bambini hanno una naturale predisposizione a imparare e che debba trovare lo spazio e le occasioni per potersi sviluppare.
Maria Montessori scopre che bambini considerati minorati mentalmente posti in ambienti accoglienti e con materiali sensoriali adeguati possono acquisire apprendimenti significativi per l’epoca (stiamo parlando dei primi del ‘900) superiori ai metodi tradizionali, cioè non esperienziali, più trasmissivi e più passivi.
Imparare è anzitutto un’esperienza e occorre che le scuole siano impostate su situazioni di coinvolgimento concreto, attivo, diretto. Non ci può essere una passività recettiva ma una sintonizzazione con il mondo della realtà, del fare, dello scoprire sensoriale.
La Montessori mette in atto la conferma metodologica di quello che ciascuno di noi fin da piccolo vive, ossia l’imparare facendo, l’imparare nella scoperta, nel poter sbagliare e nel poter ripetere fino a raggiungere una vera e propria autonomia. Lasciare ad ogni bimbo il tempo per sperimentare il proprio modo di concentrarsi, di trovare il proprio interesse dentro di sé, di esercitare l’impegno, non arrendendosi davanti all’errore, ma avendo il tempo di riprovare, senza essere giudicato, cercando le proprie strategie anche per fare le cose più impegnative. Si impara ad essere rispettati e a rispettare gli altri in un ambiente ricco di proposte ma non competitivo. L’interesse, che si vede nei bambini per ciò che viene proposto,  la  passione e la volontà, dove lo scambio tra bambini anche più grandi o più piccoli aiuta ad imparare, ma anche ad avere interesse per gli altri, a chiedere ma anche ad aiutare i compagni in difficoltà, a prendersi cura delle cose comuni.
Il suo metodo in altre parole asseconda le naturali tendenze infantili e umane ad assorbire l’esperienza e a trasformarla in nuove capacità.
 

Non si basa sulla correzione ma sulla libertà

I luoghi comuni sui bambini  sono molti: sono capricciosi, disturbatori, oppositori, distratti, incapaci, opportunisti, provocatori. I genitori ancora oggi andando ai colloqui con gli insegnanti si sentono ripetere “suo figlio potrebbe fare di più; suo figlio non è concentrato; suo figlio è molto distratto; suo figlio non esegue; non ascolta”. Tutto questo incalzare di giudizi negativi sui bambini trova nella pedagogia montessoriana il suo definitivo superamento.
Non si tratta di correggere ma di far nascere. “Chi tenta di correggere il bambino con la forza e con il peso della propria autorità si accorgerà ben presto di aver fallito nel suo intento. Il bambino risponderà in modo forte, esplicito perfino violento”.
Si tratta per Maria Montessori di sostenere il bambino senza invadenza, senza oppressione, per consentire alla sua forza vitale di esprimersi creando l’ambiente e le connessioni metodologiche adeguati. Si tratta di aiutarlo in maniera indiretta piuttosto che indicargli continuamente quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello che deve fare e quello che non deve fare. La pedagogia correttiva purtroppo resta ancora molto presente nei nostri immaginari sia in famiglia che nelle scuole con conseguenze devastanti per il potenziale di crescita infantile.
Ciò che si propone è di sospendere ogni forma di correzione infantile, di intervento diretto invasivo nei confronti di quello che i bambini stanno facendo, lasciando che siano loro stessi a fare le scoperte necessarie. Grazia Honnegger Fresco, grande pedagogista italiana “Non occorre che l’adulto metta costantemente in evidenza gli sbagli e li corregga. Anzi, l’atteggiamento giudicante è un attacco alle capacità maieutiche dell’essere umano, all’autostima del bambino”.
 

Perché la libertà è sempre formativa

Il metodo assume il concetto di libertà come elemento fondamentale. La Montessori non usa mezzi termini. “Quando perciò parliamo di “libertà” del piccolo bambino non intendiamo di considerare le azioni esterne disordinate che i bambini abbandonati a sé stessi compirebbero come sfogo di un’attività senza scopo, ma diamo la parola in senso profondo di liberazione della sua vita da ostacoli che ne impediscono il normale sviluppo..
Rimuovere, per quanto possibile, queste circostanze, studiando più profondamente i bisogni intimi della prima infanzia per liberare il bambino.
Creare l’ambiente adatto dove il fanciullo può agire dietro una serie di scopi interessanti da raggiungere, incanalando così l’azione educativa e in funzione della libertà infantile, ossia della costruzione di uno spazio e di un tempo dove i bambini possano fare esperienza autonoma. 

Dobbiamo capire, dice la Montessori, che per il bambino non è importante da solo. L'adulto deve rinunciare anzitutto ad essere verbalmente e praticamente il despota a cui il bambino deve obbedienza con la pretesa che la mente infantile si formi secondo un piano stabilito a priori.

Perché i bambini imparano con le buone esperienze e non con le spiegazioni verbali

Una scuola che pretende che i ragazzi mandino a memoria nozioni che non hanno applicazione, che non hanno riscontro nei loro interessi, che non diventano parte di una motivazione profonda, gli insegnanti stessi sono vittime sacrificali di un sistema che li spedisce a ripetere ciò che hanno subito a loro volta quando erano alunni che non tiene conto né dei loro bisogni né tanto meno di quelli dei bambini, delle bambine, dei ragazzi, delle ragazze che passano tanto tempo tra le mura scolastiche e avrebbero diritto a ben altro.

Una vera comunità di apprendimento non sottopone gli insegnanti ad un precariato decennale ed umiliante, sotto stress continuo, spesso demansionati a compiti amministrativi e con formazione continua basata su ripetizioni di argomenti visti e rivisti, perchè l'esperienza, come insegna la Montessori, si fa sul campo, oppure ottenere risultati da continue valutazioni che interrompono e interferiscono sul naturale processo di conoscenza dei bambini e costringere le scuole e gli insegnanti ad attività di "marketing" per procacciarsi gli alunni.

“Aiutami a fare da solo” rappresenta il modello pedagogico scientifico che aiutano i bambini a crescere nella consapevolezza delle proprie risorse, nella fiducia di potercela fare da soli, nella sintonizzazione con le proprie capacità.

domenica 30 agosto 2020

Perchè NO!

Di Leonardo Gaddini 

Il prossimo 20 e 21 Settembre si voterà, oltre che per le elezioni: regionali, amministrative e suppletive, anche per il referendum costituzionale sul "taglio dei parlamentari". Se la riforma dovesse passare i membri della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica passeranno dagli attuali 630 e 315 a 400 e 200 (più i Senatori a vita). La legge di riforma costituzionale fu approvata dalle camere a grandissima maggioranza, ma nonostante ciò la riforma è tutt'altro che perfetta. 

Se i "sì" dovessero vincere, infatti, intere aree del Paese si troverebbero prive di rappresentanza in Parlamento. Addirittura intere province con poca popolazione, anche se di grandi dimensioni, potrebbero non riuscire ad eleggere un senatore (è il caso di Rieti per esempio). Il taglio riduce la rappresentanza nel senso che si allargheranno a dismisura i collegi elettorali e, giocoforza, ci saranno piccole regioni in cui molti partiti non saranno rappresentati, si ridurrà il pluralismo e, a causa dei territori più vasti, aumenteranno i costi delle campagne elettorali e soltanto chi potrà sostenerli sarà più facilmente eletto. Tra le regioni più colpite ci sono: la Basilicata, che perderebbe il 46,15% dei seggi, il Friuli Venezia Giulia con -40,00% e l'Abruzzo con -38,10%, inoltre la Liguria, con cinque seggi, avrebbe una rappresentanza al Senato, in sostanza, della sola area genovese. Viceversa il Trentino Alto Adige sarebbe sovra rappresentato, perchè con la riforma le provincie autonome di Trento e Bolzano sarebbero accumunate a due regioni, ottenendo così il doppio dei parlamentari rispetto a oggi. I problemi poi ci sarebbero anche per i nostri connazionali all'estero, specialmente nel collegio "Europa" dove ci sarebbe una perdita del 42,86% dei rappresentanti. 

La riforma svilisce il ruolo del Parlamento e ne riduce la rappresentatività, senza offrire vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche, essa, infatti, non eliminerebbe ma, al contrario, aggraverebbe i problemi del bicameralismo perfetto. Infatti, con un Senato composto da 200 componenti e che continuerà a svolgere le stesse funzioni di prima, sarà molto più difficile reggere il confronto con la Camera. Si allungheranno i tempi e diventerà più tortuoso l’iter parlamentare dei testi di legge. Ciò aumenterà inevitabilmente l’iniziativa del Governo (già oggi molto pesante) con decreti di varia natura e il ruolo del Parlamento sarà ulteriormente mortificato. Senza contare che su platee così ridotte di parlamentari crescerà il peso delle lobby di interessi privati e di categorie particolari, che potranno condizionare il contenuto della legislazione utilizzando l’accresciuto potere di interdizione di ogni singolo parlamentare. 

Né, tantomeno, su quello del risparmio della spesa pubblica. I fautori della riforma adducono, a sostegno del "sì" al referendum, la riduzione di spesa che la modifica della composizione delle Camere determinerebbe. Si tratta, però, di un argomento inaccettabile non soltanto per l’entità irrisoria dei tagli di cui si parla, pari solo allo 0,007% della spesa pubblica (praticamente un caffè all'anno), ma anche perché gli strumenti democratici basilari (come appunto l’istituzione parlamentare) non possono essere sacrificati o depotenziati in base a mere esigenze di risparmio. Spesso si fa riferimento agli esempi di altri Stati ma non può correttamente compararsi il numero dei componenti delle camere italiane con quello di altre assemblee parlamentari in termini astratti, senza tenere conto del numero degli elettori, che è molto alto vista la popolosità del nostro Paese (e, dunque, il rapporto eletti/elettori deve essere anch'esso elevato). Si trascura, inoltre, che in molti degli ordinamenti assunti come termini di paragone si riscontrano forme di governo e tipi di Stato molto diversi dai nostri. 

La riforma, oltre che inutile, appare ispirata da una logica “punitiva” nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa. I parlamentari sono visti come esponenti di una “casta” parassitaria da combattere con ogni mezzo ed è il segno di una diffusa confusione del problema della qualità dei rappresentanti con il ruolo dell’organo parlamentare. Non è dato riscontrare, tuttavia, un rapporto inversamente proporzionale tra il numero dei parlamentari e il livello qualitativo degli stessi. Una simile riduzione dei componenti delle camere penalizzerebbe soltanto la rappresentanza delle minoranze e il pluralismo politico e potrebbe paradossalmente produrre un potenziamento della capacità di controllo dei parlamentari da parte dei leader dei partiti di riferimento, facilitato dal numero ridotto degli stessi componenti delle camere. In più con il passaggio di questa legge diventerebbe fondamentale l'apporto alla maggioranza dei Senatori a vita, quindi la stabilità dei prossimi Governi potrebbe dipendere in modo considerevole da persone che non sono state elette dal popolo.

Non può trascurarsi, inoltre, lo squilibrio che si verrebbe a determinare qualora, entrata in vigore la modifica costituzionale, non si avesse anche una modifica della disciplina elettorale, con essa coerente, tale da assicurare, nei limiti del possibile, la rappresentatività delle Camere e, allo stesso tempo, agevolare la formazione di una maggioranza (sia pur relativamente) stabile di governo. Bisogna poi precisare, però, che mentre le leggi elettorali possono essere modificate facilmente e frequentemente, ciò non accade per le riforme costituzionali. È illusorio, in conclusione, pensare alle riforme costituzionali come ad azioni dirette a causare shock a un sistema politico-partitico incapace di autoriformarsi, nella speranza che l’evento traumatico possa innescare reazioni benefiche. Una cattiva riforma non è meglio di nessuna riforma. Semmai è vero il contrario, respingendo questa riforma perché monca e destabilizzante, ci sarebbe spazio per proposte equilibrate che mantengano intatti i principi fondanti del nostro ordinamento costituzionale, al contrario sarebbe più difficile mettere in discussione una riforma appena avallata dal corpo elettorale.

Per tutti questi motivi io vi invito a votare NO! 

giovedì 27 agosto 2020

Collaboriamo tutti per l'empowerment femminile!

 di Valeria Frezza


Nel 1946 Simone De Beauvoir scriveva: “Donne non si nasce, si diventa”. In questa frase è riassunto il senso di ciò che si intende per empowerment femminile. Nascere donna significa essere inquadrate in dei presupposti culturali di cui è necessario liberarsi per raggiungere un livello più profondo di consapevolezza, partecipazione, condivisione delle responsabilità. Fino alla tanto agognata uguaglianza di genere, irrealizzabile senza un percorso coraggioso e onesto di liberazione dai ruoli culturali e sociali imposti.
Il rapporto 2018 di UN Women, l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata a studiare la condizione femminile, afferma: “Raggiungere l’uguaglianza di genere non è solo un obiettivo importante in sé e per sé, ma anche un catalizzatore per raggiungere un futuro sostenibile per tutti”. Come compiere dunque questo percorso di empowerment femminile? Quali strumenti utilizzare e quali obiettivi porsi? Si può cominciare a rispondere a questa domanda ragionando su due livelli.

1- Self-Empowerment

Per crescere dal punto di vista personale bisogna anzitutto acquistare consapevolezza delle proprie capacità, ma anche dell’importanza di saper comunicare agli altri ciò che facciamo, di argomentare le idee e convincere chi ci circonda (colleghi o familiari) a collaborare. Sono molti i modi per svilupparle o anche solo per imparare a riconoscerle nelle proprie dinamiche personali: dai percorsi di gruppo ai coaching personali, dalla lettura dei libri giusti ai workshop sull’argomento. Molto utile in questo senso è anche lo sport: focalizzarsi su un obiettivo, far parte di un clima di gruppo, anche negli sport individuali, e sperimentare in prima persona l’autoefficacia e sentimenti di competenza e autonomia, sono fattori determinanti per costruire un’esperienza di pensiero positiva, e smuovere quelle dinamiche stagnanti che impediscono il cambiamento.

2- Empowerment professionale

Si tratta fondamentalmente di imparare a utilizzare al meglio le proprie capacità, risorse, potenzialità.
Uno dei fattori più determinanti per trovare la spinta a potenziarsi in questo senso, è incontrare dei role model, ovvero quel tipo di persona che ci porta a immaginare la versione migliore di noi stessi. Questo per le donne è chiaro già da tempo, infatti fioriscono i network dedicati alle professioniste e le campagne volte a rendere protagoniste quelle donne che possono costituire un modello positivo per le nuove generazioni, anche per la loro capacità di attrarre le ragazze verso le discipline STEM.

Secondo i dati Ocse, soltanto il 5% delle ragazze quindicenni in Italia aspira a professioni tecniche o scientifiche. Lo stereotipo culturale secondo cui il femminile sarebbe “più portato” verso professioni di cura, empatiche, di assistenza. ”.
Si tratta insomma di intraprendere un gioco di squadra in cui la condivisione del sapere spinge verso l’empowerment sia chi dà che chi riceve.
La finanza personale: negli Stati Uniti per la prima volta le donne hanno superato gli uomini nella gestione della finanza personale, arrivando a controllare il 51% della ricchezza privata. Nello stesso anno uno studio McKinsey fa emergere che le donne americane costituiscono il 47% della forza lavoro e sono responsabili dell'avvio del 41% di nuove imprese. Sono dati impressionanti, accostati anche al rilevamento che le aziende con i team dirigenziali a più alta gender diversity avrebbero il 21% di probabilità in più di ottenere una redditività superiore alla media.
L’Italia non fa eccezione: secondo i dati di Industry Lead Financial Services Gfk Italia, il numero di donne capofamiglia di età compresa fra 35 e 54 anni è aumentato del 78% dal 2000 al 2014. Non solo: la percentuale di patrimoni superiori a 50mila euro detenuta dalle donne sarebbe in linea con quella maschile, con un 15% di donne capofamiglia con un patrimonio considerato “affluent” contro il 18% degli uomini.
Questi dati raccontano la crescita non solo del potere economico delle donne: è aumentata la capacità delle donne di generare reddito e di conseguenza il loro impatto sul mercato, ma soprattutto la consapevolezza di un ruolo attivo, molto più che in passato, nella realizzazione di un’indipendenza che ha un sapore non solo economico. 
L’empowerment passa anche attraverso l’affermazione della propria capacità decisionale, sia nella quotidianità domestica che in un orizzonte più ampio e professionale ed economico.

Imprenditorialità femminile: Continua a crescere il numero di imprese femminili: nel 2018 erano 6mila in più rispetto all’anno precedente e confrontando il dato con il valore di cinque anni fa sono aumentate del 2,7%. È quanto emerge dai dati dell’Osservatorio Unioncamere, che ha censito in Italia più di un milione e 300mila aziende con a capo una donna, rappresentando circa un quarto del totale.

Uno dei problemi principali riscontrati dalle donne imprenditrici è l’accesso al credito, come emerge in una indagine di Cna: il 56% delle donne intervistate di un campione di popolazione ha sostenuto che a parità di altre condizioni, un uomo è avvantaggiato nelle relazioni con la banca.
L’imprenditorialità è una delle chiavi fondamentali per l’empowerment femminile: più donne protagoniste nell’economia contribuiscono in modo determinante alla consapevolezza della piena parità tra i generi. È un fattore economico ma manche culturale, che passa attraverso i modelli positivi e i casi di successo testimoniati dai numeri sempre crescenti.

Tratto da ilsole24ore

sabato 22 agosto 2020

#IOvotoNO PER 5 ragioni.

 di Armando Dicone.

I 5 motivi del mio NO al referendum.


- #IOvotoNO per ricostruire la buona politica. Come cittadino elettore vorrei una politica capace di risolvere i tanti problemi che ci portiamo dietro da 30 anni, ma non per questo chiedo un taglio dei seggi parlamentari che sono sinonimo di rappresentanza territoriale;


- #IOvotoNO per difendere la democrazia parlamentare voluta dai nostri padri costituenti, i quali decisero che per ogni 80.000 abitanti ci fosse 1 deputato e per ogni 200.000 abitanti 1 senatore;


- #IOvotoNO perché penso che il risparmio di un caffè all'anno, per ogni cittadino, non possa essere la vera ragione per cambiare la costituzione;


- #IOvotoNO perché la proposta del taglio non migliora né velocizza i lavori parlamentari, penso che sia necessario ricostruire partiti veri per selezionare e formare una nuova classe dirigente;


- #IOvotoNO perché non vorrei che dopo il taglio ci sia una "supercasta" con pieni poteri.

Il 20 e 21 settembre #IOvotoNO


Ti ringrazio per l'attenzione.

martedì 18 agosto 2020

Crescita economica e ambiente NON sono nemici - Gruppo “Lavoro, economia e ambiente”

Di Leonardo Gaddini 


In Italia l’ambientalismo ha sempre incrociato le proprie strade con l’anticapitalismo, con il movimentismo a favore di modelli di sviluppo alternativi, con tutta quella galassia che va dal mondo no-Tav e simili agli autonomi, a parte dei centri sociali, ai fautori della decrescita felice, all’intellighenzia che si batte contro la globalizzazione, o contro per esempio l’utilizzo del PIL per misurare la crescita o lo sviluppo economico. Il problema è che la realtà ci dice che invece sono i Paesi più avanzati, o meglio quelli con maggiore PIL pro-capite, i responsabili delle minori emissioni per ogni euro di valore aggiunto. La scienza ci dice che la responsabilità del riscaldamento globale risiede soprattutto, per il 63%, nelle emissioni di CO2. La profezia degli ambientalisti catastrofisti trova oggi parziale smentita. Il sistema capitalistico non ci porterà alla rovina lasciando dietro di sé un pianeta soffocato e agonizzante, ma è anzi capace di mondare le sue colpe, di attivarsi per conciliare la massima produzione di beni e ricchezza con la riduzione drastica dell’inquinamento atmosferico. 

Certamente molto dipende dal tipo di industria. E sicuramente c’entra il fatto che alcune delocalizzazioni abbiano portato produzioni più inquinanti a Est. Tuttavia, l’esempio tedesco, e in parte italiano, ovvero delle due industrie manifatturiere maggiori, del resto molto diversificate, mostra come i Paesi con reddito maggiore e maggiore sviluppo industriale siano anche quelli che riescono a produrre valore con minore emissione di gas e sostanze nocive. 

Per l’Italia ci sono buone notizie anche se si guarda alle variazioni delle emissioni nel tempo. Tra 2008 e 2017, infatti, quelle di CO2 per euro sono scese del 38,8%. Più della media europea, più di quanto accaduto in Germania. Tra l’altro i cali maggiori si sono verificati nei Paesi dell’Est più inquinanti, come Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, e in Irlanda. È un segno che proprio laddove le emissioni sono più grandi, là si stanno riducendo di più. È una coincidenza che siano anche i Paesi che in questi anni sono economicamente cresciuti di più? Non è forse un caso che invece l’unica che ha al contrario aumentato in nove anni le emissioni di CO2 per euro prodotto sia la Grecia. L’Italia appare una felice eccezione, bassa crescita, basse emissioni, eppure sono in calo più che altrove. Un trend simile a quello della CO2 si nota nel PM10 (materiale inquinante presente nell'aria) e nel metano, in cui però l’Italia fa peggio della media.

La relazione non è perfetta, anzi, ma si intravede anche un rapporto tra produttività del lavoro ed emissioni di CO2 nell’industria. Laddove è maggiore tendenzialmente queste ultime sono minori, sempre misurate per euro di valore aggiunto. Forse la ricetta per fermare il riscaldamento climatico non è fermare la crescita e la globalizzazione, ma incrementarle, contagiare con le migliori pratiche sulla produttività adottate nell’Europa centrale e settentrionale anche gli altri Paesi che sono ancora indietro. Sono le economie più efficienti, quelle con margini e profitti più alti, le più capitaliste, insomma, quelle che non solo hanno potuto adottare soluzioni ecologiche nelle proprie industrie senza temere cali di produzione, ma soprattutto che le hanno inventate, grazie alle risorse liberatesi per la ricerca sempre grazie agli alti surplus. 

 

La consapevolezza di ciò fatica a farsi strada tra i più giovani perché non vi è neanche tra l’élite nel nostro Paese, allergiche per formazione a un certo tipo di cultura, ma forse è giunto il momento di mettere da parte i cattivi maestri anche in economia. L’unica vera soluzione ad un problema sistemico come lo è quello ambientale è il progresso tecnologico: se la tecnologia che permette di usufruire di servizi più sostenibili si diffonderà: l’ambiente ne gioverà moltissimo. Lo Stato dovrebbe fare un passo indietro e smettere di tassare chi è interessato a produrre servizi ecosostenibili, permettendo un massiccio investimento, di natura privata, in ricerca e sviluppo di tecnologie green. 

Chi ci garantisce che ciò possa funzionare? La natura stessa del libero scambio: i produttori investiranno in tecnologia green, per migliorare la propria competitività in un mercato che si prospetta sempre più redditizio.

domenica 16 agosto 2020

Donne leader e passaggio generazionale

 di Valeria Frezza

Il passaggio generazionale è argomento di grande interesse sotto molti profili. Chi si occupa di mediazione sa perfettamente quali conflitti possono nascere in ambito successorio.

Spesso i nodi relazionali sono così complessi da impedirlo oppure la mancanza di volontà di molti soggetti di mettersi in gioco dal punto di vista relazionale.
Ci possono essere vari aspetti: quello finanziario, quello culturale e quello umano.
Gestire un passaggio generazionale significa creare un processo attraverso il quale si possano sviluppare delle soluzioni tali da creare ponti di trasmissione da una generazione all’altra che comprendano tutti e tre i livelli e che abbiano solide basi di appoggio da entrambe le parti.
Questo significa, prima di tutto, comprendere bene chi sono tutti i soggetti coinvolti dal passaggio generazionale, ascoltarli e includerli nel processo, con l’obbiettivo chiaro di ottenere il loro assenso rispetto alle scelte che verranno effettuate man mano.
Se non viene fatto, il passaggio generazionale diventa un momento critico, conflittuale e senza prospettive e progettualità.
Le imprese individuali purtroppo nascono, crescono e muoiono.
È necessario infatti un livello di generatività che manca agli uomini da soli ed è più presente nelle donne che in questo modo guadagnano sul campo credibilità e legittimazione che va oltre quello meramente affettivo che trova la sua origine nelle relazioni famigliari, soprattutto nei confronti della generazione entrante.
La leadership femminile guarda lontano e vive nel presente creando le condizioni affinché la società e le imprese possano avere continuità, permette una maggiore valorizzazione delle risorse, dei più giovani e delle donne, garantisce una più equa distribuzione di genere delle posizioni di potere, una riduzione del trauma che i passaggi generazionali determinano e una maggiore continuità.
Il problema della mancanza del passaggio generazionale può essere determinato dal rischio di fare dell'impresa il centro degli affetti e quindi un luogo chiuso e di una minore apertura verso l'esterno.
Per questo è fondamentale creare un cuscinetto tra le giovani generazioni e la generazione uscente, organizzare dialogando con i famigliari, riconoscendo le diversità e valorizzandole anche nell’assegnazione di ruoli manageriali rispondenti alle diverse competenze e capacità di ognuno.
Lo stile di gestione della leadership di uomini e donne è differente, limitato e imperfetto, per questo è vincente chi sa portare al vertice sia uomini che donne e anche saper integrare e valorizzare i più giovani, ciò vale per le generazioni uscenti e ancor più per quelle entranti. La leadership femminile, che più di quella maschile valuta la diversità di cui è portatrice come un valore, può essere un assist da mettere in campo per gestire i passaggi generazionali e per gestirli con successo e non solo in ambito imprenditoriale.

lunedì 10 agosto 2020

Quando parliamo di Taglio di Democrazia…

 di Alessandro Tuzzolino

Uno dei capisaldi della campagna #IoVotoNO è che il Taglio dei Parlamentari comporta una riduzione della rappresentanza dei cittadini, un vero e proprio Taglio della Democrazia

La prima motivazione è palese: riducendo il numero di rappresentanti in Parlamento il valore del voto del singolo cittadino diminuisce sensibilmente: dagli attuali 97mila abitanti per parlamentare a 153mila alla Camera e da 194mila a 307mila al Senato. 

C’è una seconda motivazione altrettanto importante: la rappresentanza territoriale sarebbe a serio rischio, soprattutto al Senato (“eletto a base regionale”, per l’art.57 della Costituzione). 

Ho quindi calcolato, considerati questi dati e quelli sulla popolazione, quanti cittadini vengono rappresentati da ogni singolo deputato o senatore in ogni regione, giungendo alla seguente tabella:


Evidenzio alcuni dati: al Senato, il voto di un Abruzzese o di un Lombardo varrebbe meno della metà di quello di un Molisano o Valdostano,

Ecco cosa intendo quando parlo di “rischio per la democrazia”: una gravissima distorsione del diritto di voto su base geografica, (anche) per questo #IoVotoNo.  

giovedì 6 agosto 2020

#DonnealCentro - L'Italia è (ancora) un paese maschilista? Il punto della situazione delle donne in Italia

di Valeria Frezza

Rispetto a molti Paesi del mondo in Italia possiamo vestirci come vogliamo, possiamo guidare, votare, girare (più o meno) liberamente per la città, abbiamo accesso alle cariche politiche e a tutte le professioni e la legge ci tutela nel poter gestire il nostro corpo. Dal secondo dopoguerra ad ora, grazie al coraggio delle donne che ci hanno preceduto, le donne hanno vinto importanti battaglie politiche e, almeno sul piano formale, l'uguaglianza è stata riconosciuta ma in Italia le donne continuano ad essere discriminate.
L'Italia e' un Paese che punta sugli uomini: mansioni dirigenziali, rappresentanza politica, migliore trattamento economico, lavorativo e sociale. Ruolo ancora marginale invece per le donne: gli italiani sono concordi nel ritenere che la discriminazione di genere sia un fenomeno che c'e' e pesa.
L'analisi congiunta per sesso e fasce d'eta' suggerisce che la duplice condizione di donna in giovane eta' e' penalizzante per l'accesso nel mondo del lavoro. In particolare sono 4 gli aspetti su cui si e' concentrata l'indagine: accesso al mondo del lavoro, possibilita' di carriera, differenziale salariale e livello contrattuale a parita' di mansione e titolo di studio.
Tra questi il 65% ritiene che gli aspetti piu' problematici siano proprio la possibilita' di carriera e l'accesso al mercato del lavoro, cause principali la maternita', se non accompagnata da strumenti di tutela idonei, e un'idea ancora troppo stereotipata della donna legata a un fattore culturale.
A livello europeo, l'Italia e' agli ultimi posti per tasso di occupazione femminile e rappresentanza politica.
I nuovi populismi hanno creato una regressione nell'emancipazione femminile perchè sono contro forme di collaborazione tra uomini e donne, contro misure a favore dell’uguaglianza giuridica delle donne, si prefiggono anche di propagare idee antidemocratiche e proiettano l’immagine di cittadini assoggettati alla leadership e alle ideologie dei partiti. L'estrema sinistra invece spesso strumentalizza la parità di genere facendo digressioni per fini opportunistici (anche se a volte in modo ambiguo o non consapevole).
Politiche rivolte alle famiglie come l'ampliamento e il miglioramento dei servizi per l'infanzia, un potenziamento delle istituzioni che promuovono la parita' di genere ma soprattutto una svolta culturale e sociale: queste le possibili soluzioni proposte dai cittadini.

lunedì 3 agosto 2020

Precari storici della scuola ancora in attesa del ruolo: "Lotteremo e l'otterremo"


Una collega scrive un post al Ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina:
"Preg. mo Ministro Azzolina, le chiedo a nome mio e di tanti colleghi il perchè di tanto accanimento nei confronti dei precari da parte dello Stato Italiano. Accanimento celato da buonsenso... e diritto. Da parte sua mi aspettavo - e forse ancora spero - una visione oggettiva e propositiva. Ha dimenticato cosa vuol dire essere precario/a? Non penso perchè è un marchio tatuato a fuoco sulla pelle. Ha dimenticato le ansie e le angoscie che scaturiscono durante le estati assolate ed afose? Non penso, anche perchè ha lottato accanto ai precari per anni. 
Ha dimenticato cosa vuol dire conseguire "master obbligatori" (per un totale di 10 punti e circa 1800 euro) e certificazioni linguistiche/informatiche, travestite da crescita professionale, solo per non restare indietro e poter continuare a lavorare annualmente? Master che con le nuove graduatorie per gli incarichi annuali (GPS) svaniscono nel nulla?
Ha dimenticato i sacrifici fatti - con tassa universitaria onerosa - per conseguire l'abilitazione all'insegnamento? 
Lavorare e contemporaneamente seguire le lezioni a tanti km da casa per 3 giorni settimanali e dare esami? Tra l'altro, stando alla sua - o meglio dire di chi le ha imposto la sua diramazione - tabella titoli, viene annullato il punteggio di servizio conseguito durante l'anno dell'abilitazione, nonostante questo sia iniziato dopo i 180 giorni di servizio. Non è corretto nei confronti dei colleghi del TFA (Tirocinio Formativo Attivo) e tanto meno nei confronti di noi che abbiamo fatto il PAS (Percorso Abilitante Speciale) che già otteniamo solo 12 punti. Aver fatto il PAS è sempre stata una colpa (nonostante i numerosi anni di precariato non previsti per legge).. Si faccia due conti a riguardo e capirà che è un abuso.
Le pare corretto che ad oggi, non abbiamo notizie della quota 100-2020 nè delle assunzioni autorizzate MEF per l'anno scolastico 2020/2021?
Le pare corretto che i supplenti 2020/2021 con contratto "breve e saltuario" in caso di lockdown verranno licenziati in tronco senza poter chiedere Naspi? Siamo "usa e getta"? Non posso pensare che lo Stato - che reputo una madre amorevole per i suoi figli - possa arrivare a tanto.
Le pare corretto che la tassa del concorso straordinario per il ruolo 2020 è di € 50 (pur non avendo certezza che venga fatto) e quello ordinario € 10?
La verità è una: i precari storici sono un peso e si sta tentando di tutto per farli stancare e disamorare del loro amato lavoro, ma le assicuro che nessuno potrà mai riuscirci! Lotteremo e l'otterremo il ruolo che ci spetta!"

Prof.ssa Margherita Stimolo
Presidente del C.N.D.A.
(Coordinamento Nazionale Docenti Abilitati)
Amministratrice del gruppo Facebook: https://www.facebook.com/groups/transitorioperilruolo/

Il vampiro con le ali d'acciaio - Gruppo "Lavoro, economia e ambiente" di #ForumalCentro

di Leonardo Gaddini

Mesi fa è stato pubblicato il Decreto Rilancio che, tra le varie cose, stabilisce anche la definitiva nazionalizzazione di Alitalia, la compagnia aerea in crisi da quasi trent'anni e in amministrazione commissariale da quasi tre anni, che è sopravvissuta da allora soltanto grazie ai continui prestiti erogati dai tre Governi che si sono succeduti. Nonostante la decisione fosse stata presa tempo fa solo ultimamente il Governo ha rivelato il nuovo piano industriale. Questa settimana, infatti, Stefano Patuanelli, Ministro dello Sviluppo Economico, ha dichiarato che la flotta sarà costituita da 70 aerei, ma non ci saranno esuberi. Ciò però ha attirato sull'esecutivo non poche critiche tra cui quelle dell’economista Andrea Giuricin, che si dichiara scettico a questo riguardo, infatti diminuendo solo del 35% il numero degli aerei è complicato pensare di mantenere tutto il personale. Ma le sue non sono le sole critiche, anche il Club Trasporti, il sindacato di base radicato nell’handling, è contrario al piano, affermando che sarebbero i lavoratori a subire il cambio di strategia su Linate e Malpensa. Inoltre, anche i membri della task force dell’ONU sui trasporti sostengono che la politica italiana non sia capace di elaborare una strategia industriale efficace. “Sprecare i soldi dei contribuenti per difendere Alitalia, che ha solo il 7,7% del mercato da e per l’Italia, è assurdo“.

Il salvataggio di Alitalia e la sua nazionalizzazione non sono una sorpresa, anche se non hanno mancato di suscitare le consuete polemiche da parte di chi accusa il governo di continuare a spendere soldi per tenere in piedi un'azienda destinata al fallimento, specialmente in un momento di grande crisi economica ed emergenza sanitaria dovuta la Coronavirus. In queste settimane quasi tutti i Governi europei hanno stanziato ingenti risorse per salvare le principali compagnie aeree, ma la crisi di Alitalia, in realtà, dura con fasi alterne da quasi trent’anni. L'ultima convulsione nella travagliata storia di Alitalia era iniziata già a novembre dell'anno scorso, ben prima della pandemia, quando le ultime offerte di acquisto per la compagnia vennero ritirate e il Governo si trovò di fronte alla difficile scelta di far fallire la società o mettere in atto un nuovo intervento pubblico, il terzo in poco più di dieci anni.

Dalla primavera del 2017 a oggi, sotto la gestione di numerosi commissari, Alitalia ha continuato a perdere soldi, circa un milione di euro al giorno, ed è sopravvissuta soltanto grazie a una serie di “prestiti ponte” forniti dal Governo e le cui scadenze sono state via via allungate. In questo periodo, il governo ha esaminato decine di differenti offerte di acquisto. In diverse occasioni si è arrivati vicini alla cessione della compagnia aerea, ma alla fine per una ragione o per l'altra le trattative si sono sempre concluse senza un accordo. Se sommiamo i 3 miliardi da poco stanziati a quanto Alitalia è già costata allo Stato (e quindi a noi contribuenti) in 45 anni vediamo che: dal 1974 al 2014 i costi diretti di Alitalia ammontano a 7,62 miliardi. Se poi aggiungiamo i 75 milioni versati da Poste Italiane a fine 2014 per l'operazione Etihad (poi sfumata), i 900 milioni "prestati" nel 2017 dal governo Gentiloni, si arriva a 8,6 miliardi, più anche i 145 milioni di interessi, non rimborsati. Ma lo sperpero di risorse pubbliche non finisce qui, infatti, a fine dicembre 2019 il governo M5S-Pd ha assegnato al nuovo commissario, Giuseppe Leogrande, altri 400 milioni, come "prestito" semestrale, che non verrà restituito né saranno pagati gli interessi per quasi 20 milioni. Aggiungiamo poi l'ultimo colpo: i 3 miliardi per la nazionalizzazione, più altri 350 milioni, residuo del decreto Cura Italia di Marzo. Si arriva a 12 miliardi 515 milioni sperperati dallo Stato per una delle compagnie più fallimentari del Paese. Sono poi da tener conto anche i 100 milioni (come minimo) che lo Stato dovrà spendere per gli oneri della cigs nei tre anni di commissariamento. Alla fine il costo è di circa 210 euro a testa per ogni italiano, neonati e malati compresi.

Quello di Alitalia è forse il caso di spreco dei soldi dei contribuenti più clamoroso, ma è solo uno dei tantissimi casi simili che la nostra classe politica ha portato avanti negli ultimi anni. Recentemente infatti c'è stata anche la nazionalizzazione di Corneliani azienda di abbigliamento maschile di alta fascia, in perdita da anni. Lo Stato dovrebbe occuparsi solo dei servizi veramente essenziali per la collettività, non di elargire mancette e aiutini alle imprese fallimentari, perché la produttività non crescerà mai se chi lavora male non fallisce, anche perchè tutto ciò è finanziato tramite le imposte estorte alle aziende realmente produttive. Questo circolo vizioso sta andando avanti da molto tempo nel nostro Paese e ci sta portando pian piano verso il baratro, solo un profondo cambio di politica economica e industriale (ma anche di mentalità) può interrompere questo continuo declino e fare in modo che l'Italia torni finalmente a crescere.