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mercoledì 8 maggio 2024

L'innovatore attento, serio, senza retorica

 di Salvatore Colletti


Il nove maggio di quarantasei anni fa, in via Michelangelo Caetani, all’interno del bagagliaio di una  Renault 4 rossa, venne ritrovato il corpo di uno dei più prestigiosi leader della Democrazia  cristiana. 

Nel corso di questi anni, la figura di Aldo Moro è stata un po’ “relegata” al «caso Moro». Se la  speranza di sapere un giorno cosa sia effettivamente accaduto durante quei cinquantacinque  giorni, deve continuare a guidarci, allo stesso modo, penso e condivido le parole del prof. Renato  Moro, il quale ha affermato che non si possono ridurre quasi 62 anni di vita in un racconto legato  agli ultimi 55 giorni. Dunque se «si vuole davvero onorarne la memoria e farne conoscere il profilo  agli italiani» occorre «“liberare” Moro dal carcere brigatista, […] e occuparsi di lui come politico –  naturalmente – ma anche come intellettuale, come giurista, come cristiano, come uomo». 

Il pensiero moroteo è molto difficile analizzarlo tout court; il rischio è quello di interpretarlo in modo  banale. In questo contesto, mi limito ad affrontare due visioni che hanno orientato gran parte della  sua azione politica: la centralità della persona, nella sua inviolabilità, inoggettivabilità,  responsabilità, e la realizzazione della «democrazia compiuta», concepibile soltanto  parallelamente al precedente principio, in quanto per Moro, il concetto di democrazia non fu  «soltanto espressione di libera iniziativa [...] ma anche approfondimento della dignità umana nel  suo pieno significato, nelle sue integrali aspirazioni ed esigenze». 

La centralità della persona non ha caratterizzato soltanto l’impegno politico di Moro, ma anche – e  soprattutto – quello accademico, rendendolo un vero e coerente democratico cristiano. Una visione  maturata durante il percorso universitario, favorita dall’amicizia con monsignor Giovanni Battista  Montini – futuro Papa Paolo VI –, legata alle posizioni filosofiche del personalismo comunitario di  Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier; concezione, totalmente opposta al pensiero filosofico politico hegeliano diffuso dal regime fascista, che esalta – appunto – il valore della persona  umana: «lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato». 

Moro, già a partire dall’elezione in Assemblea costituente, cercò di fare in modo che la centralità  della persona non rimanesse un astratto principio ma diventasse uno dei cardini del nuovo Stato  da costruire. Questo suo contributo è stato propiziato dall’essere membro della «Commissione dei  75», con il compito di redigere il nuovo testo costituzionale, dove insieme ad altri giovani docenti  universitari – Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti – ha fatto convergere tutte le  forze politiche su questo concetto. Un suo intervento nella seduta del 13 marzo 1947, dedicata alla  discussione delle disposizioni generali del progetto di Costituzione, rappresenta una delle  testimonianze concrete di quanto fosse centrale la persona nel nuovo ordinamento. Il dibattito  riguardò i primi tre articoli della Carta costituzionale, ritenuti da Moro «la chiave di volta della  nostra Costituzione, il criterio fondamentale di interpretazione di essa», i cui principi rappresentano  i «tre pilastri» dello Stato: «La democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso – che Moro  definì – largamente umano». 

Lo Statista è stato, fin dall’inizio dei lavori in Commissione, favorevole al riconoscimento della  centralità del lavoro, voluto fortemente da La Pira. Durante il confronto che si creò tra il gruppo  comunista e quello democristiano, dal momento che l’onorevole Togliatti voleva qualificare l’Italia  come «Repubblica di lavoratori», Moro fu uno dei mediatori che elaborò, trovando anche il consenso del gruppo comunista, il primo comma dell’art. 1, sostenendo che la definizione di  Togliatti «avrebbe assunto fatalmente un significato classista». Nella formulazione del secondo  comma, asserì di essere molto favorevole a puntualizzare che la sovranità è esercitata «nelle  forme e nei limiti della Costituzione»; ritenne necessaria «un’indicazione di questo genere, la quale  servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità  dello Stato è la sovranità dell’ordinamento giuridico». E aggiunse che «non è il potere dello Stato  un potere o un prepotere, di fatto è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito  dell’ordinamento giuridico formato appunto dalla Costituzione». Un limite che, alla luce  dell’esperienza pre-repubblicana, servisse a tutelare i diritti, le libertà, la dignità della persona,  anche dallo Stato, ed essere una garanzia contro la possibilità di un nuovo potere assoluto, anche  se legittimato dal voto popolare. 

Non a caso, l’articolo seguente, il secondo delinea il volto del nuovo Stato, basato sulla centralità  della persona, sul rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, sul pluralismo democratico, sul valore  della solidarietà. Proprio per questo, è l’articolo che meglio rappresenta l’idea di Stato che Moro  ebbe. Egli stesso affermò che con questo articolo si viene a delineare il volto dello Stato in «senso  largamente umano». E precisò: «Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio  dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se  non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e  nelle quali essa integra la propria personalità». 

Infine, nell’affrontare il terzo articolo, specificò che, con tale norma si trattava «di realizzare il più  possibile l’eguale dignità di tutti gli uomini». E continuò: «Non accontentiamoci di parole, di  dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che il più  possibile siano di fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini». 

Dopo la Costituente, Moro è stato ininterrottamente deputato dalla I legislatura. Nel 1948 fu  nominato sottosegretario al Ministero degli affari esteri e negli anni successivi ricoprì anche altri  prestigiosi incarichi: fu eletto presidente del gruppo parlamentare democristiano, nominato ministro  di grazia e giustizia e poi ministro della pubblica istruzione. 

Furono questi gli anni in cui avvertì sempre più la necessità di allargare la base popolare dello  Stato, di coinvolgere forze politiche escluse – in quegli anni – da ogni esperienza governativa, per  realizzare la vera «democrazia in senso politico». Affinché questo obiettivo si potesse realizzare,  era necessario superare la distinzione tra partiti “costretti a governare” e partiti “costretti a stare  all’opposizione”. Non potevano più esserci masse popolari escluse dalla vita politica dello Stato. 

Dopo la presa di posizione dei socialisti sull’invasione sovietica in Ungheria e, con gli anni,  l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia dal Partito comunista, Moro è stato tra coloro  che vide nel Partito socialista un interlocutore che, procedendo per fasi, poteva iniziare a essere  coinvolto in delle responsabilità di governo. L’apertura al dialogo con il Psi fu propiziata dalla sua  elezione, nel 1959, alla segreteria della Democrazia cristiana; proprio in qualità di segretario  politico, nella relazione al VII Congresso nazionale della Dc, pose in modo perentorio il problema  dell’inserimento delle masse popolari nella vita dello Stato: «Nessuna persona ai margini, nessuna  persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale». Dunque «la conciliazione delle masse  con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo  Stato di tutti». Il cambiamento dei socialisti rispetto al passato non fu riconosciuto da tutti, di  conseguenza fu chiamato a rassicurare colleghi di partito, elettori, ambienti scettici. Gli scontri, in  diverse parti d’Italia, che si sono verificati durante la breve fase del governo Tambroni,  confermeranno l’esigenza di una collaborazione con altre forze politiche.

L’inizio dell’apertura al Partito socialista si ebbe con la formazione del terzo governo Fanfani, noto  come «il governo delle convergenze parallele», un monocolore Dc con l’appoggio esterno del Pli,  Pri e Psdi, e con l’astensione dei socialisti. Il dialogo si rafforzò con le elezioni amministrative del  1960, con numerose giunte comunali che comprenderanno sia democristiani che socialisti; fu attraverso queste collaborazioni a livello locale che è stato possibile successivamente estenderle  anche a livello nazionale. Soltanto dopo le decisioni maturate durante l’ottavo Congresso  nazionale della Dc a Napoli, divenuto famoso per il lungo intervento di sei ore di Moro, si poté dare  vita a una nuova fase, quella del «centro-sinistra programmatico», con l’appoggio esterno da parte  dei socialisti, che portò al raggiungimento di importanti riforme: l’istituzione dell’Ente per l’energia  elettrica e la nascita della scuola media unica. Durante la quarta legislatura, dopo il breve periodo  della guida dell’esecutivo affidata a Giovanni Leone, Moro ricevette l’incarico di formare il suo  primo governo. E così l’artefice, lo stratega, «il maestro sottile di metodica pazienza», il 5 dicembre  1963 giurò al Quirinale, dando vita al «centro-sinistra organico», per formare un governo con  repubblicani, socialdemocratici, e con la partecipazione diretta del Partito socialista, portando a  compimento quel difficile percorso iniziato tre anni prima. I risultati da perseguire da  quell’esperienza furono illustrati da Moro alla Camera dei deputati nelle dichiarazioni  programmatiche del suo primo esecutivo: «Dare più vasta base di consenso e perciò maggiore  solidità allo Stato democratico, [...] favorire quel processo di sviluppo per il quale, nell’ordine  democratico, sempre più vaste masse di popolo sono protagoniste della nostra storia ed  effettivamente e largamente i cittadini godono dei diritti umani, civili ed economico-sociali che la  Costituzione repubblicana garantisce». 

Alla fine degli anni sessanta il centro-sinistra iniziò a entrare in crisi, a cui si affiancò un diffuso  desiderio di cambiamento nella società. Lo Statista di Maglie fu tra coloro che più di tutti capì  quegli anni, che quella irrequietezza diffusa tra la gente non era altro che il frutto di un profondo  desiderio di miglioramento. Lo testimonia uno dei suoi più famosi interventi, in occasione del  Consiglio nazionale Dc del 1968: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai.  Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra,  condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del  quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più  lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della  storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi  cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità». 

Nel pensare la «terza fase», Moro comprese che nei confronti del maggior partito di opposizione  fosse necessario «un atteggiamento chiaro, serio, costruttivo [...], riservando ad esso [...] una  doverosa attenzione e conversazione». L’inizio della VII legislatura, anche alla luce del sempre  minore distacco tra i due grandi partiti, vide il concepimento della solidarietà nazionale, con  l’astensione del Partito comunista al terzo governo Andreotti. L’inclinazione al dialogo, alla  mediazione dello Statista, diventò ancora più esplicita alla vigilia di un rimpasto che avrebbe  consentito al Partito comunista di votare la fiducia al governo: «Abbiamo cercato di adattare e di  approfondire questa linea di contatto reciprocamente istruttivo, sulla base non di un urto polemico  quotidiano, com’era nella tradizione, a suo tempo naturalmente comprensibile, ma sulla base di un  certo spirito costruttivo per ricercare se tra queste forze, in particolare tra queste due forze  antitetiche, alternative, della tradizione italiana, vi potesse essere qualche punto di convergenza». 

Tuttavia, la nuova esperienza intrapresa si interruppe il 16 marzo 1978, con la strage di via Fani e  il rapimento di Moro, mettendo fine all’ambizioso tentativo di sblocco della democrazia italiana. 

Guardare oggi alla figura di Aldo Moro significa interessarsi a un diverso modo di fare politica, e il  politico. Penso sia stato tra coloro che hanno concepito la politica come un sublime servizio fatto all’uomo. La sua peculiarità è stata la flessibilità, ma soprattutto, alla luce delle profonde divisioni  che caratterizzavano il Paese, la capacità di dialogo e di confronto, riservata – soprattutto – a  coloro che avevano delle idee diverse dalle sue.  

Inevitabile non menzionare, alla luce delle precarie condizioni delle nostre strutture carcerarie,  l’interesse e le preoccupazioni di Moro nei confronti dei detenuti. Lo testimoniano le sue visite nelle  carceri, sia da ministro della giustizia, ma anche in qualità di professore di Istituzioni di diritto e  procedura penale, ritenendo che fosse fondamentale per gli studenti, che affrontano degli studi  giuridici, conoscere le condizioni, le sofferenze, di quella gente; forse per ricordare che rimangono,  anche se in una condizione di libertà limitata, delle persone. Probabilmente è stata questa sua  attenzione che meglio sintetizza quanto fosse importante per Moro il valore della persona umana. 

Concludo menzionando un ulteriore estratto dei discorsi di Moro, a cui mi sono ispirato nel dare il  titolo: «Il domani non appartiene ai conservatori e ai tiranni, ma appartiene agli innovatori attenti,  seri, senza retorica». Delle qualità che certamente hanno caratterizzato la sua personalità e ci  indicano un esemplare impegno politico a cui ispirarsi.


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