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mercoledì 8 settembre 2021

La nostra crescita felice

 di Armando Dicone

La classe media paga il conto della crisi economica causata dal covid, una frase che sentiamo spesso nei talk, ma a ben guardare la crisi del ceto medio ha origini ben più lontane.

Negli ultimi due decenni chi ha tutelato il ceto medio italiano? Domanda retorica.

 

Per 12 milioni di contribuenti italiani (dai 15 a 26 mila euro) la perdita di reddito è del 10,4% in dieci anni. Dal 2008 al 2018 c’è un calo di 2.350 euro all’anno in termini di potere d’acquisto. Il 43,8% degli italiani non raggiunge neanche i 15mila euro (soglia classe media) e ha registrato una perdita di reddito ancora più marcata, oltre il 13%. Inoltre, negli ultimi dieci anni, l’area fino a 15mila euro ha perso 3,3 milioni di dichiaranti.

Dati Ocse 2019 pubblicati da "il sole 24 ore".

 

La seguente tabella mostra come la nostra società sia sempre più diseguale. Il nostro sguardo deve rivolgersi al 50% più povero e mai con invidia, o peggio ancora con odio, al 10% che anzi deve sostenere la crescita.




La proletarizzazione della nostra società è stata causata da chi? E da quali politiche?

Da queste due risposte (non chiedetelo a destra o sinistra altrimenti si incolperanno a vicenda) dovranno partire le nostre proposte condivise per quella che nel "Forum al centro" definiamo crescita felice.

 

Wilhelm Ropke, tra i padri dell'economia sociale di mercato, nella sua opera "civitas humana" scriveva: "questa società che si risolve in individui isolati e si addensa in masse ha perduto il legame intimo e organico della vera comunione spontanea, e quanto più le manca una stretta coesione, tanto più e tenute insieme dalle ferree grappe dello Stato moderno, burocratico e accentrato, il quale trasforma il singolo nella minuscola rotellina di un ingranaggio sempre più complicato, mentre gli individui più di prima lontani l'uno dall'altro."

E ancora "Il semplice aggregarsi degli individui abbandonati ormai a se stessi è quello che chiamiamo riduzione a massa."

"La riduzione a Massa, la proletarizzazione, la collettivizzazione e la scomparsa della piccola proprietà nelle masse, le quali aumentano continuamente con l'apporto dei ceti medi che si vanno riducendo quasi dappertutto, sfociano insieme in un assistenza di massa, ordinata, diretta e sempre più finanziata dallo Stato e formano, insieme con questo stato, col suo apparato di assistenza e di imposte, una società che lascia intristire qualità a vantaggio della collettività e finisce per umiliare l'uomo facendo n'è uno schiavo statale, non sempre magari ben pasciuto."

"Quanto più dilaga la proletarizzazione, tanto più impetuoso diventa il desiderio degli uomini sradicati di farsi assicurare dallo Stato e dalla società il mantenimento e la sicurezza economica, tanto più si atrofizzano i resti della responsabilità personale, tanto più diventano mastodontiche le entrate nazionali, pretese, amministrate e ridistribuite dallo Stato, tanto più opprimente il gravame delle tasse."

Dopo aver individuato la crisi del suo, nostro, tempo individuava nella proprietà privata la soluzione: "O lasciamo che tutti diventino proletari, sia da un momento all'altro con mezzi rivoluzionari sia gradualmente oppure facciamo dei proletari altrettanti proprietari, attuando quella che l'enciclica papale quadrigesimo anno chiamò giustamente redemptio proletariorum".

 

Dell'enciclica di Papa Pio XI, ricordata da Ropke, vorrei condividere due punti.

N. 75:

"la quantità del salario deve contemperarsi col pubblico bene economico. Già abbiamo detto quanto giovi a questa prosperità o bene comune, che gli operai mettano da parte la porzione di salario, che loro sopravanza alle spese necessarie, per giungere a poco a poco a un modesto patrimonio; ma non è da trascurare un altro punto di importanza forse non minore e ai nostri tempi affatto necessario, che cioè a coloro i quali e possono e vogliono lavorare, si dia opportunità di lavorare. E questo non poco dipende dalla determinazione del salario; la quale, come può giovare là dove è mantenuta tra giusti limiti, così alla sua volta può nuocere se li eccede. Chi non sa infatti che la troppa tenuità e la soverchia altezza dei salari è stata la cagione per la quale gli operai non potessero aver lavorato? Il quale inconveniente, riscontratosi specialmente nei tempi del Nostro Pontificato in danno di molti, gettò gli operai nella miseria e nelle tentazioni, mandò in rovina la prosperità delle città e mise in pericolo la pace e la tranquillità di tutto il mondo. È contrario dunque alla giustizia sociale che, per badare al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato; e la medesima giustizia richiede che, nel consenso delle menti e delle volontà, per quanto è possibile, il salario venga temperato in maniera che a quanti più è possibile, sia dato di prestare l'opera loro e percepire i frutti convenienti per il sostentamento della vita".

N. 110:

"per evitare l'estremo dell'individualismo da una parte, come del socialismo dall'altra, si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura, individuale e sociale propria, tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro. Le relazioni quindi fra l'uno e l'altro devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima giustizia commutativa, appoggiata alla carità cristiana. (...) Infine le istituzioni dei popoli dovranno venire adattando la società tutta quanta alle esigenze del bene comune cioè alle leggi della giustizia sociale; onde seguirà necessariamente che una sezione così importante della vita sociale, qual è l'attività economica, verrà a sua volta ricondotta ad un ordine sano e bene equilibrato".

 

Equilibrio, giustizia sociale e bene comune non sono solo belle parole da scrivere o enunciare nei salotti buoni, ma sono valori che "regolano" il nostro agire.

 

Luigi Einaudi, nell'articolo "dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio, del 1942 ci descrive:

"il vero problema sociale moderno: ricreare per l’uomo il piacere del lavorare, la gioia del lavoro ben fatto, del lavoro che è bello ed attraente in sé stesso. La gioia del lavoro non si crea certamente con qualsiasi organizzazione a tipo comunistico, nella quale si lavora assillati da gare stacanovistiche secondo un piano prestabilito da un’altura qualunque, da un consesso qualsiasi di tecnici sapienti ed è assente la creazione personale autonoma; ma anche l’economia di concorrenza, che non ponga a sé stessa i necessari limiti, che non miri a ridurre al minimo il tempo richiesto agli uomini per la produzione dei beni essenziali all’esistenza, e ad ampliare al massimo il tempo liberamente disponibile per Ia creazione dei beni d’ozio, fallisce allo scopo, per cui soltanto gli uomini preferiscono questo o quest’altro tipo di struttura economica, ed è la loro elevazione morale". Equilibrio tra persona umana e lavoro. Ancora una volta i saggi ci vengono in soccorso per programmare il nostro futuro, il nostro pensiero politico e la nostra presenza nella vita pubblica. Una nuova "proposta al Paese": "Io credo che nessuno di noi possa riproporre l'idea di un partito cattolico che già  i popolari motivatamente rifiutarono e che, oggi a maggior ragione, una coscienza pluralistica ancora più avanzata rifiuterebbe. Possiamo però aspirare legittimamente a raccogliere i liberi consensi di molti, moltissimi cattolici italiani, e più in generale di cittadini che condividono ed accolgono una proposta politica non dettata da presunzione ideologica, ma ispirata a solidi valori morali, attenta alle esigenze reali del Paese, aperta alle attese di progresso e di rinnovamento.

Penso che la società italiana di questi anni abbia bisogno, forse più di ieri, dell'opera politica di cattolici di fermi principi democratici". (Benigno Zaccagnini, Una proposta al Paese, 1976).

 

La nostra "crescita felice" ha radici culturali solide, attualizzarle, per trovare nuove proposte, non sarà certo semplice, ma se condivise, non sarà impossibile.

Dobbiamo solo fare uno sforzo partecipativo.

 

Grazie per l'attenzione.


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