Pagine

sabato 29 febbraio 2020

Articolo inviato da un assistente educativo culturale (AEC) a Valeria Frezza

fonte: giornale Dinamopress

Gli Assistenti Educativi Culturali di Roma (Aec) sono in lotta da mesi per il loro riconoscimento e per garantire la qualità del servizio nelle scuole. Un breve riassunto e lo stato attuale della situazione.

Cominciamo dall’inizio: chi sono gli AEC? A chi, per qualsivoglia motivo, abbia a che fare con il mondo della scuola, la sigla non dovrebbe risultare nuova; per tutti gli altri invece facilmente suonerà enigmatica.
L’Assistente Educativo Culturale (o OEPA, come da nuovo acronimo di Operatore Educativo Per l’Autonomia) è una figura esistente ormai da decenni nelle scuole di tutta Italia (anche se la denominazione varia di regione in regione) e si occupa di favorire l’inclusione scolastica e l’autonomia degli studenti con disabilità.
Se nel discorso pubblico la loro esistenza è stata fino a poco tempo fa totalmente misconosciuta, all’interno del sistema scolastico questi lavoratori costituiscono invece delle vere e proprie colonne portanti. Oltre a garantire l’effettività del diritto all’istruzione dei bambini con disabilità, l’Assistente Educativo rappresenta per loro il più importante punto di riferimento, essendo la figura scolastica con cui spesso trascorrono il maggior numero di ore e con la quale, per diversi motivi, instaurano un rapporto più ravvicinato e in qualche modo “confidenziale”: per dirlo con le parole di una lavoratrice, gli AEC sono coloro che «sono abituati a guardare il mondo dall’altezza degli occhi dei loro bambini».

LA FUNZIONE EDUCATIVA

Il nuovo regolamento adottato nel 2017 dal Comune di Roma (che riguarda circa 2500 lavoratori e in base al quale è stato reso obbligatorio uno specifico corso di formazione, spesso a carico del lavoratore stesso) attribuisce agli AEC una funzione educativa, di mediazione comunicazionale, per la quale sono necessari elementi e competenze basilari di psicologia. Risiede qui la prima grande anomalia: perché, seppure gli Assistenti Educativi sono spesso educatori o psicologi laureati e a pieno titolo, queste competenze espressamente richieste dal Regolamento non trovano però riscontro nel contratto nazionale al quale la categoria afferisce. In parole povere gli Assistenti Educativi svolgono un certo tipo di lavoro ma sono pagati secondo un inquadramento contrattuale di almeno tre livelli inferiore a quello che sarebbe adeguato.

UNA PRECARIETÀ STRUTTURALE

Questo è però solo uno dei tanti motivi, e neanche il più importante, per i quali i lavoratori hanno indetto lo sciopero. Il vulnus più grave risiede infatti nella precarietà endemica e strutturale alla quale sono sottoposti il servizio, il loro lavoro e, di conseguenza, le loro esistenze.
Il servizio di assistenza educativa è infatti concesso in appalto a Cooperative sociali (che di sociale e mutualistico mantengono oramai soltanto il nome) attraverso bandi di gara al massimo ribasso economico, dalla cadenza più o meno biennale. Questo semplice ma enorme fatto comporta tutta una serie di gravissime conseguenze: sono innanzitutto minate alla base la qualità, l’efficacia e l’efficienza dell’intervento educativo il quale, fondandosi primariamente sulla continuità della relazione che si stabilisce tra operatore e alunno, è reso invece frammentato, contingentato dai continui cambi d’appalto ed estremamente faticoso per tutte le parti in gioco. I lavoratori sono così costretti a migrare di anno in anno da una cooperativa all’altra, ricominciando ogni volta il lavoro da capo, trovandosi continuamente ad aver a che fare con nuovi datori di lavoro e diverse condizioni lavorative, spostati come pacchi postali all’interno di uno scacchiere caotico e pressoché insensato.
Il lavoratore si trova inoltre a vivere una situazione paradossale: è un dipendente privato all’interno di una struttura pubblica (la scuola), un escluso la cui mansione è quella di favorire l’inclusione, un operatore il cui compito è prendersi cura, quando nella sua vita privata a malapena riesce a prendersi cura di se stesso.
Infatti, oltre a ricevere una paga oraria già infima di per sé, l’AEC viene rispedito a casa senza compenso giornaliero qualora l’alunno in carico sia assente, non vede spesso riconosciuto il diritto alla retribuzione dei primi tre giorni di malattia, non viene pagato durante i molti giorni di chiusura della scuola (parliamo di scioperi di insegnanti e/o personale Ata, chiusure straordinarie per neve o maltempo, ponti, festività e, dulcis in fundo, vacanze estive). In pratica su 12 mesi l’AEC riceve lo stipendio, in media, per soli 8/9 mesi l’anno, costretto nel tempo restante a trovare espedienti per sopravvivere.
Oltre il danno, però, c’è la beffa: per effetto di leggi perverse, durante i mesi estivi il contratto di lavoro con la cooperativa risulta ancora in essere, è “solamente” sospeso, motivo per il quale il lavoratore, anche se di fatto disoccupato, non può accedere alle misure previste dal welfare, né tanto meno cercare un altro lavoro.
Se già a questo punto vi sembra di essere finiti alla fiera dell’ingiustizia e dell’insensatezza, tenetevi forte, perché non abbiamo ancora finito. Solo una percentuale irrisoria di Aec ottiene dalle cooperative contratti full time: la stragrande maggioranza lavora per un massimo di 20-25 ore a settimana e risulta impossibile per loro portare avanti un altro lavoro in maniera stabile, poiché i turni sono spesso dislocati in mezzo alla giornata, essendo molto richiesta da parte delle scuole la copertura delle ore centrali e pomeridiane.
A volte l’operatore può trovarsi a dover sostenere una giornata lavorativa di 8 ore senza che gli sia riconosciuto il diritto al pasto. Nelle mense scolastiche non è infatti previsto il vitto per gli AEC, tanto meno le cooperative erogano i buoni pasto, pertanto si può facilmente arrivare al paradosso per il quale l’operatore debba presenziare a mensa per assistere il bambino, dunque sedersi al tavolo con la classe, ma non possa nutrirsi egli stesso!
Accenniamo poi rapidamente (non certo perché irrilevanti) alle mansioni improprie che regolarmente vengono richieste agli AEC (assistenza igienica, somministrazione di medicinali, sorveglianza della classe, ecc.) da scuole e insegnanti. Il rischio di burnout dopo appena qualche mese di lavoro è insomma dietro l’angolo. L’elenco delle assurdità e illegalità con le quali si trova ogni giorno a confronto un AEC potrebbe continuare ancora a lungo, ma per ora ci fermiamo qui. Perché c’è anche un’altra storia altrettanto importante da raccontare.

LA BATTAGLIA DEL COMITATO ROMANO

Stanchi di sopportare in silenzio tali umilianti condizioni di lavoro, alcuni lavoratori si sono infatti autonomamente organizzati in un Comitato, nel quale confrontarsi, costruire solidarietà e soprattutto forme di lotta per uscire dalla condizione di sfruttamento e precarietà. Il frutto più importante del lavoro del Comitato Romano AEC consiste in una Delibera di iniziativa popolare presentata quasi sei mesi or sono al Consiglio comunale capitolino, per la quale sono state raccolte ben 12mila firme, più del doppio di quelle necessarie per legge alla proposta di una Delibera.
La Delibera in questione, a fronte di una situazione tanto ingarbugliata, è in realtà semplice, non perché retorica o simbolica, ma in quanto individua una sola soluzione possibile, concreta e radicale, all’ingiustizia strutturale sulla quale si regge il sistema: l’internalizzazione nell’Amministrazione capitolina del servizio di Assistenza Educativa.

LE RISPOSTE AI DETRATTORI

Chi contesta la pretenziosità di un simile obiettivo, in tempi nei quali la risposta “non ci sono coperture sufficienti” è una sorta di ossessivo mantra, può ben trovare ai suoi dubbi risposte semplici quanto incontrovertibili: innanzitutto le 12mila firme raccolte in pochi mesi, testimonianza di un disagio estremo e diffuso che non può rimanere inascoltato.
Entrando poi nel merito della questione delle coperture finanziarie, il Comitato ha messo davanti agli occhi dei detrattori le cifre spese dall’Amministrazione capitolina per il finanziamento del servizio in appalto: se il Comune eroga per il servizio circa 20 euro l’ora, di questi solo 7 entrano direttamente nelle tasche del lavoratore, gli altri si perdono nelle maglie e nei meccanismi oscuri di una burocrazia e di strutture che producono sprechi e inefficienze. Calcolando anche le enormi cifre spese per approntare i bandi di gara, l’internalizzazione, lungi dal prevedere una spesa insostenibile per l’Amministrazione, sarebbe invece l’occasione per una riduzione degli sprechi, un miglioramento dell’efficienza, una razionalizzazione della gestione delle risorse e, probabilmente, perfino un risparmio di denaro. Siamo di fronte alla dimostrazione pratica che l’assioma ideologico neoliberista “privato è meglio” non si traduce automaticamente in verità di fatto.
Esiste infine un’ineludibile questione politica: il servizio che garantisce il diritto allo studio degli alunni con disabilità e svantaggio sociale non può essere affidato a strutture private che lavorano spesso senza alcuna conoscenza del campo e del territorio e gestiscono le risorse in maniera burocratica e aziendalistica. I diritti dei lavoratori e degli utenti di un servizio fondamentale come l’assistenza educativa non possono essere mercificati e vincolati a mere logiche concorrenziali e economicistiche. Essi devono essere riconosciuti come elementi fondanti di una società giusta e inclusiva, nonché come preziosa risorsa per l’arricchimento complessivo della comunità cittadina e statale.

MUNICIPI FAVOREVOLI, COMUNE LATITANTE

A concreta testimonianza di ciò stanno i voti espressi dai Consigli municipali di Roma, gli enti effettivamente più prossimi alle realtà territoriali ove si svolge il lavoro quotidiano, dunque quelli che meglio conoscono le reali esigenze del servizio: su cinque Municipi (il III, il V, l’VIII, il XII e il XIV) che finora si sono espressi, tutti hanno approvato all’unanimità una mozione di sostegno alla Delibera di iniziativa popolare.
Il Comune, di fronte a una tale mole di fatti, sembra però essersi trincerato in se stesso e continua a fare orecchie da mercante: i sei mesi di tempo che aveva per esprimersi sulla proposta sono agli sgoccioli. Ma gli AEC sono stanchi di restare isolati e in silenzio e hanno deciso di prendere in mano il loro destino mettendo il Comune con le spalle al muro: il 13 dicembre 2019 è stato il termine ultimo possibile per votare, per chiarire insomma la posizione di Assessori e Amministrazione in merito ai diritti degli alunni con disabilità e dei lavoratori dell’assistenza scolastica.
Per questo giovedì 12
dicembre 2019, dopo aver comunicato tramite una lettera aperta le ragioni della loro protesta alle famiglie e averle invitate a unirsi a loro, gli AEC hanno disertato le aule in cui quotidianamente lavorano e si sono incontrati sotto il Campidoglio per pretendere una volta per tutte ciò che non può più essere rinviato: qualità del servizio, diritti lavorativi e internalizzazione. In una parola: dignità.
Le prime e confortanti buone notizie arrivano già il giorno prima della protesta, l’11 dicembre 2019, quando il Comune di Roma convoca il Comitato e una delegazione si siede, finalmente, a un tavolo con gli assessori Mammì, Persona, Scuola e Comunità solidale, e De Santis, Personale. Dicono che sono d’accordo , che la gestione dei servizi pubblici essenziali deve essere gestita dal pubblico, e che l’appalto a privati non corrisponde alle esigenze di un servizio efficace ed efficiente.
E propongono un’alternativa alla creazione dell’ente speciale previsto dalla delibera di iniziativa popolare: la riapertura della figura già esistente all’interno della pianta organica del Comune, e cioè quella dell’assistente educativo comunale.
È con questa premessa che si arriva alla giornata del 12 dicembre 2019. Con la piazza del Campidoglio che si riempie poco a poco e che si colora degli ombrelli rossi che gli Aec hanno scelto come simbolo e di decine di cartelloni colorati e fantasiosi. Alla fine sono in centinaia a riempire la scalinata dell’Arce capitolina.
Le storie di ognuno si susseguono, nella narrazione della piazza, tutte diverse e tutte uguali, con qualche genitore che è lì, a testimoniare che i loro diritti garantiscono i diritti dei bambini con cui lavorano.
Il bilancio della giornata ci dirà che almeno 600 persone erano in piazza per i loro diritti e più del doppio non si è recata sul posto di lavoro. Il terzo passaggio avviene il 22 gennaio 2020, nel secondo tavolo tecnico, in cui emerge la questione della delibera firmata dall’allora sindaco Alemanno che , senza alcuna motivazione, mette la figura dell’assistente educativo comunale in esaurimento.
Il 12 febbraio 2020, al Campidoglio, si sono svolti due tavoli tecnici consecutivi: nel primo, vengono convocati dall’assessore De Santis i sindacati Cgil, Cisl, Uil, Csa. Si scopre così che anche loro sono favorevoli all’internalizzazione ma pongono mille ostacoli burocratici.
A seguire, c’è stato un tavolo tecnico con la delegazione del comitato e l’assessore De Santis è stato concorde con il Comitato che bisogna accelerare i tempi, per cui si propone un incontro a stretto giro per affrontare le questioni tecnico-amministrative e legali che il processo di riapertura della figura richiede e stilare una bozza di Delibera da far discutere al più presto al Consiglio Comunale. Speriamo dunque che alle molte parole possano seguire i fatti.

Nessun commento:

Posta un commento